💔 Alert: fallimenti in vista
Questa è la trentottesima newsletter del 2024. Parliamo di fallimento, ma non vi piacerà.
Questa estate all'esame di maturità come commissaria esterna, ho avuto modo di correggere il tema di un ragazzo che diceva: "Ho fallito in tutto: ho fallito come figlio, ho fallito come studente, ho fallito come fidanzato, ho fallito come amico ma una cosa l'ho fatta bene”.
Perché mai un ragazzo di 18 anni deve sentirsi un fallito? E poi “come figlio”, “come studente” “come fidanzato” “come amico”? Perché questa cosa si insinua sempre nei miei pensieri come un disappunto, una nota stonata?
Quando non so come sbrogliare la questione, parto dalla parola.
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📖 Il peso delle parole
Fallimento è un vocabolo che indica un evento specifico: il primo significato afferisce all’ambito giuridico, infatti serve per descrivere una precisa procedura lunga e dolorosa, prevista per chi non riesce a pagare i debiti, cioè è insolvente, e che, disposta dal giudice, ha come scopo la restituzione ai creditori del dovuto.
Proviamo a immaginare come potrebbe sentirsi un immaginario signor Marco (ma potrebbe essere Roberta, Giulio, Sara…), che riceve una dichiarazione di fallimento.
Magari Marco fissa con sguardo vuoto la lettera sul tavolo. Le parole "dichiarazione di fallimento" sembrano danzare davanti ai suoi occhi. Ci sono voluti venticinque anni per costruire un’azienda affermata nel mercato.
La sua azienda di bulloni, un tempo fiore all'occhiello della piccola industria locale, è ormai solo un guscio vuoto. Marco sente il peso del mondo sulle sue spalle.
Come potrà pagare i suoi dipendenti? Come i suoi “ragazzi” manterranno le loro famiglie?
Come avrà il coraggio di guardarli ancora negli occhi?
Il volto di Marco forse si contrae in una smorfia di dolore quando pensa ai suoi operai.
E come farà lui stesso a mantenere suo padre, ex operaio, che aveva investito i risparmi di una vita nell'azienda del figlio.
Marco sente di aver tradito la loro fiducia, la fiducia di tutti.
Possiamo immaginare che la notte, quando tutti dormono, Marco si ritrova a fissare il soffitto, tormentato da pensieri ossessivi. Come potrà ricominciare?
Ora, invece di essere il pilastro della famiglia, si sente un peso, un fallito nel senso più profondo del termine. E senza via d’uscita.
L’esperienza del fallimento, cioè il come uno possa vivere la situazione, quel sentirsi crollare tutto addosso rispetto ad un progetto su cui abbiamo investito tanto, ha permesso di poter usare la parola fallimento in senso metaforico.
Quando una vita non ha più la possibilità di sostenersi, fallisce, crolla. È il crollo di tutto, di tutto quello che era stata la tua vita, i tuoi sogni, le tue capacità.
Nella vita da adulto ci sono degli eventi che possiamo vivere come fallimenti. Per esempio: quando un matrimonio finisce. Si dice che c'è stato il “fallimento di quel matrimonio” perché il progetto di vita insieme non si è realizzato, è crollato. E raccogliere le macerie non è una cosa da poco.
Potremmo immaginare senza troppo sforzo una Anna di fantasia che si rende conto dei tradimenti del marito e vede il suo matrimonio fallire: quando le parole “in salute e in malattia, finché morte non ci separi” non vogliono dire proprio più nulla perché lei è da sola a casa con la febbre e lui è “in officina”.
Possiamo vederla dalla finestra del salotto, le sue dita che giocano distrattamente con la fede nuziale. Quindici anni, pensa, quindici anni di matrimonio che ora sembrano svanire come la luce del giorno. Ripensa ai momenti felici, ai progetti fatti insieme, ai sogni condivisi. Quando si sono persi per strada? Quando il "noi" è diventato "io" e "lui"?
Mentre prepara la cena, un gesto ormai meccanico, Anna ricorda i tempi in cui cucinare era un atto d'amore. Ora, ogni piatto sembra un dovere, un altro mattone nel muro invisibile che li separa. Il peso del fallimento le grava sul petto. Si sente responsabile, in qualche modo, come se avesse dovuto fare di più, amare di più, essere di più.
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🔄 La retorica del fallimento
Una delle caratteristiche del “sentirsi” falliti è il senso di inadeguatezza che lo accompagna. Ed è talmente diffuso che ormai tutti parlano di “fallimento”.
La retorica che si è insinuata è che il fallimento non esiste. Siamo invasi da post sui social e storie di ogni genere in cui in sintesi il messaggio è questo: “Guardami, ho fallito ma ho fatto i soldi”.
Esiste addirittura una “Scuola di fallimento”, per imparare il valore della sconfitta e avere successo. Alcune osservazioni della fondatrice, Francesca Corrado, in questa breve intervista, mi fanno riflettere. Ad esempio, la considerazione dell’errore1 (che non è il fallimento) è vissuto in modo diverso a seconda del genere e dell’età “gli adolescenti, per esempio, secondo l’esperienza della Scuola, hanno la tendenza ad agire in modo più emotivo e a vedere in ogni piccola sconfitta una tragedia e le donne hanno più paura di sbagliare e tendono ad andare in over-thinking perché sono più abituate alla perfezione”
🌱 Superare il fallimento
Ci sono nelle narrazioni, delle sovrapposizioni che creano confusione e lasciano spazio per i vissuti ansiogeni. Perciò ora voglio provare a piccoli passi a sbrogliare la matassa.
Non siamo più capaci di “tollerare” una sconfitta: vogliamo sempre avere ragione. La frustrazione che dipende dall’aver commesso un errore o dal sentisi inadeguati viene vissuta in maniera talmente amplificata da assumere le dimensioni di una catastrofe, di un fallimento appunto, che non è.
C’è dunque una differenza tra “ho fallito” e “mi sento fallito”: la prima è una azione, riconoscibile tanto internamente quanto esternamente, in quanto rispetto ad un dato progetto cui ho dedicato tempo ed energie, e magari soldi, non sono riuscito a raggiungere il risultato che volevo. Il secondo è uno stato d’animo soggettivo, definito da caratteristiche personologiche e vissuti intimi che variano da individuo a individuo.
Il termine fallimento si utilizza in maniera troppo leggera anche con gli studenti. Che cosa hai fallito a 18 anni che non hai ancora iniziato a vivere, se così si può dire2? Non sto dicendo che non ci possano essere a 18 anni delle vite spezzate, ma non rispetto a un progetto di vita che abbiano elaborato in autonomia.
Il contrario di fallimento è “successo”. Il successo: essere belli ricchi e famosi. Nella nostra società il successo ha dei criteri molto rigidi, la linea di demarcazione tra chi ha successo e chi no è invalicabile senza appello. È inevitabile che quando non raggiungi il successo, “fallisci”. Tuttavia puoi fallire solo se “il successo” è il tuo progetto di vita. Potresti avere aspettative differenti.
Il fallimento esiste perché, per nostra fortuna, non siamo Dio. Sperimentiamo nella nostra esistenza il fatto che le cose non vanno come diciamo noi, come vorremmo noi. Non possiamo comandare gli altri e decidere che cosa possono dire, fare, volere, desiderare, come possono far andare la loro vita. E non decidiamo neanche gli eventi che ci investono.
In sostanza il fallimento esiste perché nella nostra vita esiste la morte. Noi sappiamo che siamo fallibili perché non siamo eterni, non siamo Dio. Quindi, il fallimento è il fatto necessario legato alla nostra esistenza umana. Ci ricorda che possiamo in ogni momento cadere. La “sconfitta” è una piccola morte.
Quando leggo elogi del fallimento, perché dovresti fallire più spesso nella tua vita, il valore del fallimento, etc mi resta sempre un po’ di perplessità.
Quando ho studiato da sola, con due bambini piccoli, per il concorso da dirigente scolastico e ho superato prova preselettiva, prova scritta, e alla prova orale ho preso 59 mentre il minimo per passare era 60, non mi sono sentita fallita. Ero arrabbiata, perché mi sembrava davvero una super merdaccia. Ma io ero soddisfatta di me stessa: avevo studiato tutto da sola senza spendere troppi soldi (ho acquistato solo i libri per studiare, nessun corso), avevo mantenuto l’impegno di studiare regolarmente e fare gli schemi per un anno intero, ogni giorno, e avevo lavorato come al solito a scuola e a casa, con i miei figli, che sono sempre stati la mia priorità.
Mi sono sentita fallita, per un breve tempo, quando ho capito che avevo sbagliato tutto nel mio matrimonio e dovevo farlo finire, per amore di me stessa e dei miei figli. Una volta presa la decisione, il senso di fallimento è durato poco: perché il progetto di vita che avevo è cambiato radicalmente.
Però, ciò che accade ha bisogno di nomi chiari. Non mi trovo in questo continuo mischiare le carte, se una roba fa schifo, fa schifo e il fallimento fa schifo, stai da schifo, ti sembra tutto uno schifo. E non ti viene da pensare che alla fine è una cosa buona.
L’unico pensiero che hai è trovare una via d’uscita, ma appunto se è crollato tutto non c’è niente da salvare, sennò non avresti fallito. Meno male che nessuno ha avuto il cattivo gusto di venirmi a fare la predica su come poteva essere una grande opportunità quel disastro di cui avevo una buona parte di responsabilità, perché l’avrei strozzato con le mie mani.
Non c’è un lato positivo del fallimento: c’è il fatto che non è la fine, che la vita, per fortuna, va avanti, e le cose cambiano. E che ogni essere umano ha una enorme possibilità in ogni situazione: può decidere di vivere per “qualcosa” o “qualcuno”. Marco nel suo dissesto finanziario, può decidere di lavorare perché i suoi dipendenti possano continuare a lavorare. Anna può decidere di avere più rispetto per se stessa e affrontare la situazione con il marito che la tradisce.
Se c’è una cosa da combattere, non è il fallimento, ma il nichilismo imperante. Il nichilismo non sostiene che non c’è nulla, ma afferma che tutto è senza significato. E se tutto è senza significato, i soldi, il potere, il successo diventano i miei valori. Il regista George A. Sargent3 ricorda un terapeuta che gli diceva:
“George, devi capire che il mondo è uno scherzo. Non c’è giustizia, tutto è casuale. Solo quando realizzi questo capirai quanto è sciocco prendere seriamente te stesso. Non c’è un grandioso obiettivo dell’universo. Solamente è. Non c’è nessun significato particolare della decisione che prendi oggi su come agire”.
È esattamente questo il punto: a scuola, come adulti e come insegnanti, dovremmo prendere seriamente noi stessi e prendere seriamente i nostri studenti.
Così possiamo accorgerci di una evidenza.
Nella vita di un ragazzo, io penso, non ci possono essere degli eventi tali da essere definiti fallimenti, neanche la bocciatura, perché un ragazzo è una persona che cresce, che deve ancora svilupparsi, che sta appena iniziando ad avere dei sogni da realizzare. I progetti che ha per la sua vita ancora non sono neanche abbozzati.
Forse bisognerebbe andare più cauti nell’usare questa parola con gli studenti…
A me sembra inappropriato parlare di fallimento riguardo a bambini o adolescenti. Hanno bisogno di prendere sul serio se stessi e abbandonare questa sorta di “mancanza di significato imparata”.
Senza un significato nella vita, tutto è un fallimento.
Buon caffè
Simona ☕️
L’errore non è uguale al fallimento, non sono neanche sinonimi.
Anche la vicenda del 17enne che ha ucciso a coltellate il padre, la madre e il fratellino di 12 anni non può definirsi un fallimento: che progetto aveva mai in testa? che follia (o che droga) l’ha mai preso? Infatti pare che non ci sia premeditazione ed è stata richiesta la perizia psichiatrica. Nel caso, suggerisco una lettura della commovente omelia dell’Arcivescovo di Milano, Mario Delphini.
“Transference and Countertransference in Logotherapy”, The international Forum for Logotherapy, vol 5, n.2 (Fall/Winter 1982) pag 115-118.