🔮 Come ottenere qualunque cosa dai nostri studenti
Questa è la nona newsletter del 2024 e ti racconto l'importanza di saper fare una torta. E come ottenere qualunque cosa dai nostri studenti
Ci sono diversi tipi di docenti. O perlomeno io classifico i miei colleghi in questo modo.
Ci sono gli Stonehenge, quelli che puntano alla performance: vedono solo i tuoi risultati, quanto studi, se sei intelligente, se sei portato, scoraggiano chiunque non abbia abbastanza “talento” (secondo il loro metro di giudizio insindacabile) per la propria disciplina, hanno un sapere solido e granitico, lastricato con la forza delle loro convinzioni, puntano alle stelle dell’elevazione.
Ci sono (perché ci sono) i “Posto Fisso”, quelli che sono interessati allo stipendio e si inalberano appena sono calpestati i diritti dei docenti. Fanno il minimo indispensabile a seconda del livello di controllo. Sono apprezzati, dispensano consigli ai ragazzi che con loro vanno sempre bene. Per gli Stonehenge, loro nemici giurati, sono come fumo negli occhi. Hanno abilità politiche e rivestono incarichi di RSU o anche diverse funzioni strumentali.
Ci sono i colleghi Muffin (a me piacciono al cioccolato con il cuore morbido all’interno) che si affezionano con diverse gradazioni di intensità ai propri studenti, alle loro storie e studiano ogni modo per entrare in rapporto e puntare al massimo. Spingono sulla motivazione, cercano di strutturare lezioni accattivanti, si interessano e chiedono “come stai?”. Sono lavoratori e si interrogano costantemente su “come posso fare per…”. Sono tanti, come i gusti dei muffin, e sono i miei preferiti.
Se tu stai leggendo questo, sei certamente un Muffin. E hai bisogno che io ti dica questa cosa.
Entrare in classe è già fare qualcosa. Osservare gli studenti è già fare qualcosa. Parlare con loro è già fare qualcosa. Stai già facendo qualcosa, qualcosa di eccezionale importanza.
Troppe volte ci preoccupiamo, noi Muffin, di aiutare gli studenti, perché siamo convinti che possano farcela e che c’è del buono in loro. Ma questa nostra convinzione può essere più dannosa delle frecciatine degli Stonehenge.
A volte quello che occorre è essere presenti, esserci. Questo me lo hanno insegnato i miei figli.
E continuano a fornirmi ripetizioni. I ragazzi e i bambini hanno una loro libertà, devono poterla agire.
Prova a pensare che tra me e te ci sia una buca che impedisce di raggiungerci facilmente. Può essere ampia oppure profonda, molto regolare oppure con dislivelli, insomma immaginala come vuoi a seconda della forma che ha il problema tra me e te.
Io vorrei arrivare a te e tu lo vedi perché mi sbraccio per attirare la tua attenzione. Oppure tu vorresti arrivare a me perché sarebbe meraviglioso che io prendessi il pezzo di carta che tu sventoli da lontano, ma vedi che io sono scoraggiata e le spalle mi si incurvano per lo sconforto, mi volto per non vedere più la possibilità che mi è negata e me ne vado altrove.
Allora pensi che la maniera più semplice sia riempire la buca per costruire un terreno da percorrere e poterci incontrare. Di buche ne hai attraversate, sai come si fa e in quattro e quattr’otto hai colmato il divario. Ma magari ci stavo pensando anche io, che non ho la tua esperienza, e vedendo un po’ il terreno ho ragionato che mettendo bene i piedi avrei potuto attraversare la buca e raggiungere il mio traguardo. Solo che non ne ho avuto il tempo.
Esserci in latino era espresso con un composto del verbo sum, ad + sum. Ad è una particella che indica un moto verso luogo (infatti regge l’accusativo, cioè il complemento oggetto). Se la cercate nel dizionario, l’autore precisa che suggerisce l’idea di vicinanza nello spazio e nel tempo, di direzione e avvicinamento: il suo significato proprio è “nella direzione di”. Nel composto adsum, conserva il significato dell’essere imminente e vari sinonimi come essere presente, essere pronto o anche assistere qualcuno.
Mi immagino te che sei lì, proprio sull’orlo della buca, forse ti sporgi anche un po’ perché vuoi raccogliermi nel caso cadessi. E aspetti. Mi guardi e aspetti.
E io sotto il tuo sguardo mi sento protetta in qualche misterioso modo. Posso pensare delle soluzioni, sento la tensione, il fatto che tu sei teso o tesa verso di me (sei lì, imminente) e mi muovo, tento, sperimento, fino a che non trovo da me la soluzione migliore. Che in fondo è semplicemente prendere una decisione, scegliere. Posso superare la buca. Scelgo di farlo. Perché la mia libertà si è attivata.
C’è un motivo per cui continuiamo a sfornare metodologie didattiche e strategie innovative senza sosta. Sia chiaro: io amo le novità e la tecnologia, ma temo che dovremmo arrenderci all’evidenza che il nuovo può essere interessante solo se le “vecchie” fondamenta sono solide.
Lo scopo della lezione, nei discorsi tra colleghi, pare essere come interessare, attirare o motivare gli studenti. La maggior parte delle soluzioni che troviamo si basa sul condizionamento operante (dai, riflettici: non ti chiedono forse il voto?). La tecnica di Skinner del motivare a fare qualcosa per ricevere una ricompensa (do ut des, do perché tu mi dia, dicevano i latini), è stato fin troppo interiorizzato dai nostri studenti: la differenza che cambia tutto è “essere pagato”.
“Lei, prof, è pagata”, mi precisa il ricciolone in prima fila. “Appunto, gli rispondo io, io vengo pagata comunque, in qualunque modo svolga il mio mestiere. Forse c’è qualcosa di più, no?”
Perché il senso del lavoro non è nel pagamento. Il pagamento è il costo del mio lavoro, basato sul valore che la società riconosce per quello che faccio (e qua possono partire le lamentationes).
Ma il suo senso è altro. Mia nonna si alzava presto la mattina, era sempre indaffarata, andava in giro per la casa alacre e diceva che si sarebbe riposata quando fosse morta. Eppure non veniva pagata, perché era casalinga e come sappiamo non era un lavoro riconosciuto. In che cosa trovava la gratificazione quindi? Non lo so, non gliel’ho mai chiesto.
Però ieri ho deciso di fare una torta, anche se non sono particolarmente incline alla pasticceria, perché non c’era nessun dolce in casa e perché era da tempo che non ne facevo. E sai una cosa? È molto soddisfacente, anche se nessuno mi ha “pagata”. Ma l’avevo visto in mia nonna e l’ho visto in mia mamma.
C’è un gusto particolare nel riuscire a portare a termine un lavoro, se dovessi tradurlo in termini scientifici, oserei dire che si tratta del senso di autoefficacia.
Se tu mi tendi le mani dall’altra parte della buca, posso decidere io come superare i miei problemi. Ma non è con i tentativi di aiutarmi che mi aiuti davvero.
Quello che aiuta è che gli adulti (quelli che i ragazzi guardano, perché ci guardano) svolgano il loro lavoro, riempiano le proprie buche e facciano le loro torte. Non è necessario che sia piacevole: lo scopo del lavoro non è essere piacevole. Lo scopo del lavoro è che quella cosa che non so fare, che mi fa anche schifo fare, a furia di farla, anche contro la mia volontà. Riesco a farla. E provo una sorta di euforia, legata alla gratificazione, generata dal rilascio di dopamina (lo stesso che produce l’assuefazione ai like sui social).
Per noi Muffin è molto importante ricordare quello che diceva il mio caro vecchio Socrate: “So di non sapere”. Perché devo sapere di non sapere che cosa decide quell’alunno, quella bambina o quel genitore, per lasciargli lo spazio necessario. E qualche volta in più ripeterselo entrando in classe che non sappiamo che cosa accadrà oggi, in quell’ora di lezione (perché è così, non lo sappiamo in anticipo), ci permetterebbe di ricentrarci sul lavoro serio, sul fare la torta per il gusto di farla. Per qualche strana ragione insita forse nel nostro DNA, i ragazzi ci guardano sempre.
Intanto mi metto a fare un’altra torta perché prima o poi, vedrai, che viene fuori buona…
Ah, scusa volevi la ricetta? Non esiste proprio di ottenere “qualunque cosa” dagli altri, anche se sono i nostri studenti. Perché la torta che sei tu venga fuori buona, deve farsi i suoi 30/40 minuti in forno a 180 gradi. Fuor di metafora: non serve cercare scorciatoie, la fatica, il lavoro va affrontato, anche di malumore, se vuoi. Non sei una storia su Instagram, puoi anche essere negativa. L’unica cosa che non devi fare è evitare di scansare la tua di fatica, per preoccuparti di alleviare quella degli altri (che per quanto nobile e altruistica, resta sempre una scusa).
Buon caffè ☕️
PS: Nella scorsa newletter ho scritto “redarre” invece della forma corretta “redigere”. Grazie alla lettura attenta di @tiziana_palmieri_, su Substack
Mi è piaciuta tantissimo quella tua puntualizzazione della differenza tra SENSO e COSTO del lavoro. Da incorniciare.