Sei pronto ad una sfida?
Questa è l'ottava newsletter del 2024. Parliamo di lavoro, di sfide e ... di un invito.
Entrare in aula docenti (in particolare il lunedì mattina) è una sfida alla migliore disposizione di spirito. Ritengo un successo personale essere riuscita ad arrivare (o trascinarmi) fino a scuola, e più passa il tempo, meno lo considero scontato. Perciò entrare, lastricata di buone intenzioni (un po’ fruste dopo il traffico) nel vociare dei colleghi e captare gli infiniti: Ma se non sono capaci di fare neanche questo? Eh certo, e come fai a farli stare in silenzio? Ma sì guarda, bisogna metterli a lavorare… mi vaporizza tutta la fantasia.
Sì perché l’idea di “far lavorare” qualcuno mi fa pensare, come dicevo quando ho iniziato ad insegnare, di dover fare il domatore di feroci felini chiusi nelle gabbie e schiumanti di rabbia.
Oggi, voglio sfidare la nostra concezione tradizionale del lavoro in classe. È tempo di gettare via l'antica idea che, per raggiungere dei risultati, il compito principale di un insegnante sia semplicemente far lavorare gli studenti.
Troppo spesso ci siamo abituati a vedere il nostro compito come quello di far lavorare gli studenti, quando in realtà dovremo focalizzarci sul rendere il lavoro una priorità per noi stessi.
Si tratta di sfumature, di insignificanti particelle pronominali che innescano una rivoluzione copernicana nella nostra (o almeno mia) scalcagnata aula (con muri un po’ scrostati e gocciolii di acqua quando piove).
Prima di rivelarti questo inverosimile segreto (alla portata di tutti e perciò assolutamente invisibile ai più), vorrei raccontarti due cose di me.
Facevo la giornalista, un lavoro che ho amato e adorato. Ho conosciuto un ragazzo e ho deciso di sposarlo. Mi ha chiesto di restare a casa e non lavorare per seguire i nostri figli: così prima di lasciarlo, ho iniziato a lavorare come docente supplente. Quando ho avuto le supplenze annuali, sono letteralmente scappata di casa con i pargoletti al seguito (che allora erano dei nani paffuti e deliziosi). Certo, c’erano altri problemi, più consistenti, ma consentimi di parlare delle sfighe drammatiche della mia vita un poco alla volta.
Per me insegnare era un ripiego ma anche la possibilità di vivere dignitosamente con i miei figli, senza dipendere dal mio ex marito. Perciò avevo bisogno di quel lavoro che non mi piaceva e allo stesso tempo lo amavo per la possibilità insperata che mi offriva.
Quando leggo quelle frasi fatte apposta per vendere sul fatto che “puoi cambiare lavoro se non sei felice”, oppure “fai un lavoro che ami e non lavorerai neanche un giorno” oppure “se ti senti intrappolata in lavoro che non ti piace, la colpa è solo tua”, mi sembra che la gente voglia tutto facile. O che pensi che si possa vivere senza fatica e difficoltà.
La “vita felice”, la promessa di trovare soddisfazione ad ogni bisogno elementare della natura umana è stato sfruttato dalla politica, dai governi, dalle chiese, dalle aziende e dalla pubblicità.
“Per attirare reclute nell’esercito turco, i sultani del XV secolo promettevano ai coscritti di violentare le donne dei paesi conquistati; ora i manifesti promettono ai giovani che se entreranno nell’esercito “gireranno il mondo”.
Mihály Csíkszentmihályi spiega che la ricerca del piacere è un riflesso condizionato volto alla preservazione della nostra specie.
“Il problema è che di recente è diventato di moda considerare qualunque cosa proviamo dentro di noi come la viva voce della natura. La sola autorità di cui oggi molti si fidano è l’istinto. Se qualcosa ci piace, se è naturale e spontanea, allora non può non andare bene”,
continua. Oltre alle conseguenze reazionarie che meriterebbero un approfondimento (se uno ha una natura più incline all’aggressività, è dunque giustificato dall’utilizzare il suo “talento”?), aggiungo che questa irrazionale convinzione comporta anche il non potere o non volere stare nelle situazioni che ci si presentano. Se non stai bene in quella circostanza, cambiala con una nuova.
Ma questo non è sempre possibile. Nello specifico per me non lo era. Se non era possibile cambiare la circostanza esterna, potevo però agire per modificarla dall’interno.
Ho scoperto molto dopo Csíkszentmihályi e il suo Flow.
“La soluzione è emanciparsi gradualmente dalle ricompense della società e imparare a sostituirle con altre che dipendono da noi stessi (…) Il passo più importante per liberarsi dal controllo sociale la capacità di trovare ricompense nei fatti quotidiani. Se una persona impara a trovare significato e soddisfazione nel flusso continuo dell’esperienza, nel processo di vivere, il peso del controllo sociale cade automaticamente dalle sue spalle. Quando le ricompense non sono più delegate a forze esterne, la persona ritrova la sua forza”.
Per me la necessaria conseguenza era che, in quel momento, insegnare mi permetteva di essere indipendente e il mio lavoro meritava rispetto per quello che mi offriva e io con gratitudine e umiltà avrei fatto del mio meglio.
Insomma quando sono entrata in classe in quell’anno, la mia preoccupazione non era come farli lavorare ma come lavorarci. Come ci lavoro io? Perché non dovrei influenzare la realtà che vivo se è ciò che costituisce la mia stessa esperienza? Perché non potrei quindi migliorare la qualità della mia esperienza?
Per me insegnare è stata una sfida quotidiana, perché ha impegnato le mie risorse e le mie energie nel trovare soluzioni, studiare, affrontare continuamente ostacoli e fallimenti.
Devo ammettere che i miei studenti mi hanno offerto campi sterminati di esperienze e prove.
Non è una questione di metodologie didattiche, strategie o trucchi. Ci possono stare anche quelli, ma troppo spesso ci rivolgiamo alla “novità” come se fosse “il metodo” a risolvere tutto. Ma nessun metodo sostituisce il lavoro che ognuno di noi deve affrontare.
Non ci sono scorciatoie. C’è il lavoro che io sono disposta a fare. E qualunque aspetto della nostra vita può diventare un’esperienza ottimale. Occorre che le abilità che possiedo (o penso di possedere) siano sufficienti per accogliere una sfida: se la sfida è molto al di sopra delle mie possibilità, entrerò in ansia e non riuscirò a rispondervi adeguatamente, ma se la sfida non è abbastanza appetitosa per le mie abilità, mi annoierò. La scoperta interessante è che in questo dinamismo noi stessi cresciamo. Non solo: si può sperimentare un grande senso di gratificazione, nel riuscire a fare cose che avremmo preferito evitare o che ci provocano una grande noia (nella scorsa newsletter ho inserito un esempio emblematico).
Questo è possibile calibrando in modo adeguato la capacità dell'individuo alla sfida proposta. La caratteristica di questa straordinaria opzione è che bisogna accrescere le sfide perché le capacità migliorano. Ma occorre andare in cerca delle “sfide”, che in questo caso non sono situazioni di pericolo (non per la maggior parte) ma condizioni in cui le nostre abilità sono chiamate ad esercitarsi e ad evolversi.
La mia sfida quest’anno è preparare i ragazzi alla maturità: nello specifico, redarre uno svolgimento coerente e (spero) ben espresso della traccia scritta di italiano e comunicare in modo efficace all’orale. Perciò ho proposto una serie di “sfide” a mia voltane loro confronti: interrogazioni a tempo (4/6 minuti) su immagini sorteggiate (sia in Italiano che in Storia); esercitazioni sulle tracce della maturità, insistenza sulle mappe mentali e le argomentazioni.
E tu quali sfide vedi nel prossimo futuro?
Buon caffè ☕️
PS: Visto che abbiamo parlato di sfide, quest’anno mi piacerebbe andare qui. Ci sarai?
PPS: Le immagini sono generate con l’AI di Canva o con Krea.