🧵 #15 Avere cura
Questa è la quindicesima newsletter del 2025. Avere cura è una questione lessicale. Un “lascito” che consegniamo ai nostri studenti. Dovrebbe essere questo l’obiettivo con cui chiudere l’anno
Di lasciti e di cicli scolastici
Nel film Pitch Perfect2 entra in scena un nuovo personaggio. Proprio nel momento in cui al gruppo, male assortito ma per questo esilarante, di canto a cappella è stato impedito di accogliere nuove leve, bussa alla porta un “lascito”. Emily entra a far parte della scalcagnata compagine in quanto figlia di una storica ex cantante del coro. Ed è così che Lascito rinnova la storia.
Questi ultimi giorni che ci separano dalla fine della scuola, bussano alla porta come il Lascito di un intero anno scolastico, sia nella mente e nel cuore dei nostri alunni, sia nella mente e nel cuore di noi che li accompagniamo.
È un pensiero che mi circola nella testa da diverso tempo, un po’ perché ho delle classi quinte, un po’ perché non sempre siamo nella stessa scuola anno dopo anno e sopratutto perché ogni anno a giugno si chiude, neanche tanto simbolicamente, un ciclo.
E insomma abbiamo bisogno di sapere che abbiamo “lasciato” qualcosa ai nostri studenti. Ma come?
Lessici non più familiari
“Nell’epoca dei meme, commenta Luca Bizzarri nell’Ep.619 di Non hanno un amico, la settimana scorsa erano tutti a farsi le foto col filtro Ghibli tutti a sembrare dei cartoni animati giapponesi e la settimana dopo no. Tutti, ragazzini ma anche cinquantenni, pubblicano la loro versione pupazzetto (…) La settimana prossima ci sarà un’altra stronzata e anche un’altra canzone. Perché pure quelle durano pochissimo (…) rendendo impossibile che l’una o l’altra entrino in un lessico comune”.
È vero. Anche io sento un disallineamento che, tra l’altro nel mio lavoro in classe, spunta molte frecce al mio arco. Cavoli, insegno Letteratura e Storia.
“Davanti a un’alternativa forzata noi vecchi diciamo o così o Pomì, perché è uno slogan che abbiamo sentito per anni, e davanti a perché lo fai io devo aggiungere automaticamente disperato ragazzo mio, perché quella canzone ci sfondato le orecchie a forza di ascoltarla pure se non ci piaceva. E se da una parte guardo con tenerezza le nuove generazioni che consumano frasi e non sanno più cosa sia un tormentone sospettando che si perdano qualcosa, dall’altra però provo una certa invidia perché avrà un futuro con meno nostalgie, meno Madeleine che ne condizionino la maturità, se e quando avverrà. Ma poi mi chiedo: è un bene? Chi lo sa? La paura è che la mancanza di una memoria lessicale, l’assenza di Madeleine non culinarie ma culturali, di nostalgie possibili, possa certamente favorire la tendenza di guardare sempre avanti, con il dubbio però di non avere gli strumenti per capire che cosa si stia guardando là davanti”.
Luca Bizzarri
Mentre ascoltavo queste parole, la mia paura ha preso forma.
L’incubo di non avere lasciato niente.
Fallimento su tutta la linea.
Mi ha soccorso l’abitudine ad osservare i miei studenti, i loro comportamenti e le nostre conversazioni. Riporto appunti sparsi dell’ultimo periodo.
Durante l’ora di lezione, un mio alunno mi interrompe per rivelarmi che ha disegnato il mio fumetto. Sotto la frase iconica: “Io so studiare”. Fa parte del mio arsenale, sopratutto nel biennio, perché spiego che forse non sono una brava insegnante ma so fare bene una cosa: studiare.

Mi raccontano di un mio collega che dice spesso “è banale”: hanno scritto in suo onore il Manifesto del banalismo.
Quando si lamentano (più spesso di quanto io desideri) dei miei colleghi, riportano le frasi standard, addirittura raccolgono su quaderni e diari (così come faccio io con loro) le perle del giorno.
Cura, cioè impegno
Che i ragazzi memifichino ogni cosa è fuor di dubbio. Ma tutti questi esempi (e molti altri occorrono nella vita di ogni insegnante) rivelano che non c’è intelligenza artificiale che tenga quando si crea una memoria lessicale della relazione insegnante-studenti. Un linguaggio, come un lascito, che appartiene a quella relazione e basta.
Perché ci sia un Lascito di quest'anno scolastico, è però necessario prendersi cura.
È così che durante la visita al Birrificio Rurale di Desio (MB), quando il mastro birraio Lorenzo Guarino spiega ai miei anziani studenti di quinta che tecnicamente “gusto dolce” è una sinestesia e chiede cos’è, i miei meravigliosi distrattoni sanno rispondere.
Quindi l’obiettivo per me, ora, è prendermi cura, prendermi cura di quello che ho fatto, ma anche di quello che siamo in questo momento. Immagino che a molti si accenda inevitabilmente il collegamento con il motto “I care”, che don Milani creò per sintetizzare il suo singolare approccio pedagogico, in netta opposizione al fascista “Me ne frego”… Nella scuola di Barbiana, il messaggio “I care” campeggiava sulle pareti della scuola, simboleggiando un impegno a prendersi cura di tutti gli studenti, indipendentemente dalle loro capacità o provenienza.
Prendersi cura non meramente della relazione, come ci siamo stufati di sentirci dire. Prendermi cura del mio lavoro a scuola, avere il pensiero, (magari ritornando un po’ al significato originale del termine come lo richiama Umberto Curi, professore di Storia della Filosofia all’Università di Padova), radunare le fila di quello che abbiamo fatto, pulire da quello che non serve con la preoccupazione che noi, docenti, e loro, studenti, siamo soddisfatti almeno di qualcosa, grande o piccola che sia.
In caso contrario il senso di insoddisfazione che grava costantemente sui docenti diventa l’ennesima polvere che si deposita sulla nostra professionalità: prima o poi si accumulerà talmente tanto che diventerà impossibile pulire e vederne la bellezza.
Avere cura delle piccolezze, delle minuzie, delle povere parole significa impegnarsi e continuare a impegnarsi nel tempo. Il significato che preferisco tra quelli proposti dal mio fido Castiglioni Mariotti (il dizionario di latino che avevo al Liceo) è assolvere al proprio compito.
Avere cura è una questione lessicale: quale sarà il “lascito” che permetterà di far ripartire il filo della storia?
Buon caffè ☕
(e buona Pasqua)
Simona