#44 finestre senza persiane
Perché pretendere di conoscere gli studenti è l'illusione più pericolosa. Io sono Simona Sessini e questa è la quarantaquattresima (in estremo ritardo) newsletter del 2025 de Il caffè del lunedì
Sull’ultimo modello dell’Human Design, gente che non si fa i fatti suoi e studenti che non sono mai “catalogabili”.
Un’amica mi rivela l’esistenza dell’ennesima frontiera dell’auto-conoscenza: Human Design1, un cocktail esoterico che mixa I Ching, astrologia, cabala e chissà cos’altro. Promette di svelarti chi sei davvero, così, in un colpo solo.
Boom, risolto il mistero dell’esistenza. È il motivo per cui cabala, tarocchi, astrologia e misticismi vari hanno tanta presa sulle persone: promettono di conoscere se stessi e il mondo in breve, con sistemi chiarificatori.
Da dove viene questo bisogno ossessivo di catalogare, definire, incasellare noi stessi e gli altri? Perché questa fame di certezze su chi siamo e chi abbiamo di fronte?
La domanda mi è tornata in mente con prepotenza questa settimana.
Gente che non si fa i fatti suoi
Pausa pranzo. Mentre chiacchieriamo un nuovo collega mi pone questa domanda: “Ma tu, come mai non hai un compagno?”, Poi come per attenuare l’invadenza, aggiunge “Perché non è che sei una persona sgradevole, eh”.
Meno male. Almeno non sono sgradevole.
Ma l’avrei mandato molto poco elegantemente a quel paese.
Mi sono fermata un attimo. Le domande che facciamo agli altri rivelano sempre qualcosa di noi. Lui non stava davvero chiedendo a me. Stava cercando di capire se stesso, di spiegare a se stesso perché stesse bene con la sua ragazza.
E infatti è partito il monologo, io non ho risposto ma lui sì: sta con lei da un anno, è felice, gli piace starle vicino, condividono la quotidianità non solo nei weekend ma tutti i giorni, si ritrovano dopo il lavoro. Dice una cosa che mi colpisce: “Conoscersi ogni giorno mi fa capire sempre meglio chi è lei, ma anche che non finirò mai di conoscerla”.
Sembra una frase fatta. Magari è così e ancora non riesce a misurare appieno il peso delle sue parole. Però è anche una piccola sgualcita verità: la conoscenza dell’altro non è mai conclusa. Non è un target da raggiungere. È un processo infinito e inesauribile.
Finestre senza persiane
Qualche giorno dopo, dopo la magistrale esibizione di Silvia Cosmo al violoncello, mentre gusto la mia birra acida nella taproom del Menaresta, Monica2 passandomi accanto mi chiede: “Simo, sei stanca?”. Confesso che sì, a fine settimana, lo sono: “Si vede tanto?”.
E lei: Ormai siete finestre senza persiane per me.
Bellissima, questa immagine. Folgorante.
Perché dice due cose contemporaneamente:
1. La conoscenza è possibile. Con il tempo, la frequentazione, l’abitudine, le persone diventano più trasparenti. Non sono muri ciechi. Sono finestre: puoi vedere dentro, intravedere qualcosa della loro interiorità.
2. Ma… la conoscenza non è mai totale. Una finestra ti permette di guardare dentro, sì, ma c’è sempre un limite. C’è sempre un “dentro” che resta inaccessibile, misterioso, irriducibile.
Mi è tornato in mente Leibniz3 e le sue monadi: “atomi spirituali” che vivono isolati, senza finestre né porte, incapaci di comunicare davvero.
Per fortuna Monica ha scelto la metafora opposta: non siamo monadi murate.
Siamo finestre. Aperte, senza persiane.
Dalle ferite alle finestre
E se all’inizio fossimo davvero monadi lisce, impenetrabili? Forse lo siamo, da bambini: superfici perfette, intatte. Poi arrivano le ferite. I rapporti con gli altri, le delusioni, i conflitti. Si creano crepe, feritoie.
Ma è proprio attraverso quelle feritoie che passa la luce. Le ferite, se le lasciamo respirare, diventano finestre. Quello che ci ferisce, quasi sempre il rapporto con l’altro, è anche ciò che ci permette di farci conoscere, di conoscere gli altri, di aprirci al mondo e crescere.
La vulnerabilità è la condizione della comunicazione.
Senza crepe, niente luce.
Senza luce, nessuna possibilità di essere visti e di vedere.
Cosa c’entra tutto questo con la scuola?
C’entra.
Perché noi docenti ci caschiamo sempre nella tentazione di “fare i prof” su tutto.
Quest’anno sto frequentando un corso di degustazione della birra che mi porta parecchio fuori dalla mia comfort zone. È un territorio totalmente nuovo, e mi accorgo che la professoressa gnoma e recalcitrante che abita dentro di me è in forte disagio quando si parla di qualcosa che non conosce a fondo. Vorrebbe controllare tutto, come sempre, preparare un power point mentale sulla storia della birra, prendere appunti perfetti, dimostrare agli altri che “ho capito”, fare la domanda intelligente che mi fa sembrare meno ignorante di quanto sono. Ma qui non può: non è il suo campo.
E io la guardo dibattersi come un pesce fuor d’acqua e penso: ecco, questa sensazione qui, questo smarrimento, questa vulnerabilità, questo non sapere, è esattamente quello che dovremmo provare più spesso.
(E questo è uno dei motivi per cui continuo a dire che i docenti dovrebbero fare corsi che non c’entrano niente con la scuola. Dove non sono esperti. Dove non possono atteggiarsi. Dove devono mettersi in gioco, senza rete).
Se faccio così nel mio tempo libero, figurarsi in classe.
Parlo di quella deformazione professionale che ci convince di avere già capito tutto:
di conoscere davvero i nostri studenti,
di averli inquadrati,
di poterli definire una volta per tutte. Dico la convinzione di sapere già tutto.
“Questo è svogliato.”
“Quella è brava ma insicura.”
“Quello lì ha problemi a casa.”
“Quest’altra è oppositiva.”
Li incaselliamo. Mettiamo crocette. Compiliamo PDP e PEI come se fossero certificati di identità definitiva, fissati, scolpiti nella pietra. Come se bastasse una diagnosi, un voto, una valutazione formativa (o non formativa, o quel cazzo che vogliamo) per esaurire una persona.
Ma una persona non si esaurisce mai.
Uno studente non è un libro aperto. Non è un algoritmo prevedibile. È una finestra senza persiane: puoi intravedere qualcosa, sì, ma dentro c’è un mondo che ti sfugge, che cambia, che evolve, che non puoi possedere.
In sintesi
Primo: l’altro è irriducibile a me. Non posso rinchiuderlo nelle mie categorie, nei miei giudizi, nei miei schemi interpretativi. Se sono davvero un docente, cioè una persona che si assume la responsabilità educativa di un’altra persona, devo rispettare questa irriducibilità. Devo accettare che i miei studenti (anche quelli cui vorrei tirare un calcio tra i denti) siano ricchi di una ricchezza che non posso misurare, catalogare, possedere.
Secondo: quello che davvero insegniamo non sono i contenuti. È noi stessi, ciò che siamo. La nostra capacità di testimoniare che si può vivere da finestre senza persiane: aperti, vulnerabili, feriti ma non chiusi. È attraverso le nostre ferite, quelle che si intravedono, quelle che nostro malgrado si intuiscono, che si crea la vera comunicazione. Ed è quella comunicazione che rende possibile non solo l’apprendimento, ma tutto ciò che rende bella la vita.
Sarà la malinconia della pioggia di questi giorni, saranno le ricorrenze dei morti, ma credo che questa sia una delle cose più importanti da tenere a mente: smettere di pretendere di conoscere chi abbiamo davanti. Soprattutto se è uno studente. Soprattutto se abbiamo potere su di lui.
La conoscenza è un processo, non un possesso.
E le persone sono finestre, non mura.
Buon caffè (del mercoledì) ☕
Simona
PS: Ti sei accorto che non ho risposto in modo esplicito alla domanda iniziale “Da dove viene questo bisogno ossessivo di catalogare, definire, incasellare noi stessi e gli altri?”. Bene, se conosci qualcuno che potrebbe aver bisogno di newsletter che pongano domande e lasciandone qualcuna aperta, condividi questo articolo. E se non sei ancora iscritto, che aspetti? Ogni settimana riflessioni pratiche per docenti che vogliono fare la differenza.
Per la precisione: astrologia, I Ching, Kabbalah, sistema dei chakra, fisica quantistica, genetica e altre conoscenze antiche e moderne per creare una mappa personalizzata della natura e del potenziale di ciascun individuo. Il metodo è stato elaborato da Ra Uru Hu (nome d’arte di Alan Robert Krakower) nel 1987, in seguito a quella che l’autore descrive come un’esperienza mistica. La lettura si basa su una bodygraph, un grafico del corpo ricavato da data, ora e luogo di nascita, in cui compaiono 9 “centri energetici”, in parte ispirati al modello dei chakra. Questi centri rappresenterebbero le aree della vita in cui la persona è più stabile oppure più esposta e vulnerabile. Il proprio profilo Human Design emerge dalla combinazione di questi centri, dai canali energetici che li collegano e dai 64 esagrammi dell’I Ching. Se siete curiosi di scoprire la vostra Rave Chart potete provare qui.
L’occasione era l’evento dedicato alle birre acide e barricate del Birrificio Menaresta di Carate Brianza.
Leibniz sostiene che la realtà è composta da monadi, cioè unità spirituali semplici, indivisibili, che non hanno né finestre né porte: significa che le monadi sono mondi chiusi, non ricevono influenze dall’esterno e non comunicano direttamente tra loro. Ognuna rappresenta l’intero universo secondo la propria prospettiva interiore, ma l’armonia tra tutte è garantita da Dio, che ha predisposto le loro “programmazioni”. Per un rapido ripasso su Leibniz, clicca qui.





