Ciao,
Vediamo a che punto siamo arrivati. Abbiamo ammesso che ci piacerebbe diventare un insegnante WOW, come il prof. Keating, capace di trascinare gli studenti e portarli ad appassionarsi allo studio e, perché no, alla vita. Capaci di fare la differenza, insomma.
Qualche tempo fa ho realizzato un questionario sulle percezioni degli insegnanti riguarda agli aspetti della didattica e della scuola, rintracciando i luoghi in cui ritengono di trovare soddisfazione nello svolgimento del proprio lavoro, a cui hanno risposto 194 docenti di tutta Italia.
La quasi totalità degli insegnanti risponde che considera la lezione svolta soddisfacente quando riesce a coinvolgere gli studenti. Anche io sono di questo parere: la gratificazione di aver fatto breccia e aver attirato l’attenzione su un argomento di studio mi sembra mi provochi un rilascio di endorfine, come dopo aver corso per 1 km (cosa che non sono del tutto sicura di riuscire a fare).
Noi però stiamo in classe ogni giorno, forse gli studenti ci vedono più spesso dei loro genitori. Quindi per essere carismatici sul serio, non basta un exploit il lunedì mattina e tutto magicamente si risolve. Serve un lavoro. Costante, puntuale, continuativo. Sarebbe il contenuto della parola lavoro.
Per proporre un lavoro, devo individuare un obiettivo specifico, quindi circoscritto: se è troppo vago, tipo io che dico: “devo dimagrire, mi metto a dieta”, non calerò mai di peso. Se invece inizio a precisare, devo dimagrire di un chilo in questo mese, ho qualche possibilità in più.
L’obiettivo deve essere: prioritario, concreto, comprensibile. Deve possedere delle caratteristiche che lo rendano cioè condivisibile con altri, che in questo caso sono studenti. Cioè persone con le quali noi viviamo una relazione dispari: noi adulti, loro no.
Come ci relazioniamo con i nostri studenti? Come possiamo rendere il rapporto con loro “formativo”?
Anche noi, come adulti, vogliamo essere al centro dell’attenzione.
In realtà ci viene inevitabilmente concessa: nell’organizzazione dello spazio, noi siamo alla cattedra o giriamo per la classe in piedi, mentre loro sono seduti ai banchetti sgangherati. E qualcuno non ci sta neanche più.
Ogni tanto io me lo dico: “eh ma cavoli, anche io ho dei diritti, delle esigenze, etc”.
La realtà è davvero molto semplice: noi comunichiamo con gli altri, tutti gli altri, o per affossarli o per renderli più forti. Molti si sentono investiti della implacabile missione di essere critici nei confronti di tutti. Questa missione sembra spargersi a macchia d’olio, basta vedere i social e l’uso che se ne fa.
Attenzione: qui parlo della critica nel senso negativo del termine, il significato 4 del dizionario Treccani, non l’analisi strutturata ma il biasimo di qualunque cosa.
La sala insegnanti (o qualunque altro punto di incontro) è il teatro massimo dello sport mondiale della lamentela. Ci sono discorsi che appaiono degli interminabili (e insopportabili Cahiers de doléances). Ma questo continuo logorarsi in ciò che non va bene, aumenta la tensione.
E se questo è vero in generale, immaginiamo quanto la lamentela continua rivolta ai nostri studenti possa rendere il clima della classe asfissiante. Una camera a gas.
Ed ora vengo al mio esempio. Il mio esempio ha per protagonista il sedicesimo presidente degli Stati Uniti d’America, Abraham Lincoln. Durante la guerra di secessione visse un periodo di grande frustrazione, in particolare dopo la battaglia di Gettysburg, la grande vittoria dell’esercito nordista, combattuta nei primi giorni del luglio del 1863. Durante la notte del 4 luglio, il generale Robert E. Lee, che comandava l’esercito sudista, comincia la ritirata verso sud proprio mentre scoppiava un temporale furioso, con la pioggia fitta fitta che ingrossa i fiumi.
Si trova nella meravigliosa circostanza in cui davanti ha un fiume in piena, il Potomac, e dietro l’esercito dell’Unione, il vincitore, alle sue spalle.
Un’occasione ghiotta, anche sei non sei un esperto di strategia militare stile Risiko. L’esercito del Sud era in trappola, finalmente la guerra sarebbe finita, Lincoln telegrafa al generale George Meade di attaccare immediatamente. E invece il generale convoca il consiglio di guerra.
Lincoln dà di matto. Urla e inveisce contro il disgraziato generale cacasotto. Lincoln permise al Generale Halleck di informare Meade che la fuga di Lee aveva "creato grande insoddisfazione nella mente del Presidente". Meade rispose offrendo le sue dimissioni, a cui Lincoln rispose scrivendo questa lettera, che però, riflettendoci meglio, non inviò mai.
Scrisse:
Ancora una volta, caro generale, non credo tu apprezzi l'entità della sfortuna implicata nella fuga di Lee. Era a portata di mano, e chiudere su di lui avrebbe, in connessione con le nostre altre recenti vittorie, messo fine alla guerra. Così com'è, la guerra sarà prolungata indefinitamente. Se non potevi attaccare Lee lo scorso lunedì, come puoi farlo a sud del fiume, portandoti con te pochissimo più di due terzi della forza che avevi a disposizione allora? Sarebbe irragionevole aspettarsi, e non mi aspetto che tu possa ora ottenere molto. La tua occasione d'oro è passata, e ne sono profondamente addolorato—
Ti prego di non considerare questo come un perseguimento nei tuoi confronti. Poiché avevi appreso che ero insoddisfatto, ho pensato fosse meglio dirtelo gentilmente.
Sulla busta, scritto da Lincoln stesso, c’è annotato: “A Gen. Meade, mai inviata, né firmata”1.
Perché Lincoln non invia la lettera?
La lettera avrebbe certamente fatto rodere di vergogna Meade, ma un generale risentito avrebbe operato meglio? Il generale Meade era stato nominato pochi giorni prima della decisiva battaglia di Gettysbourg e aveva vinto. Meade aveva delle ragioni forse per non inseguire l’esercito sconfitto dei sudisti? L’esercito guidato da Meade aveva combattuto per tre giorni, non avrebbe retto ancora a lungo un combattimento, si sarebbe disfatto.
Dale Carnegie scrive una cosa molto bella:
“C’è un solo modo per ottenere da qualcuno quello che vogliamo. Ci avete mai pensato? Un solo unico modo. E cioè fare in modo che l’altra persona voglia quello che vogliamo noi. È l’unico sistema.
Ovviamente si può persuadere un malcapitato a mollare l'orologio anche puntandogli una rivoltella alle costole. O si possono convincere i dipendenti alla collaborazione intensiva - almeno finché non girerete loro le spalle - con la minaccia del licenziamento in tronco. Da un bambino si può ottenere l'obbedienza con percosse e minacce. Ma questi sistemi violenti hanno spiacevoli controindicazioni.
Il solo sistema valido perché io ottenga da voi quello che voglio è che anche voi lo vogliate.
Ma di solito la gente che cosa vuole?
Sigmund Freud sostiene che alla base di ogni azione umana stanno due motivazioni: l'impulso sessuale e il desiderio di grandezza.
John Dewey, uno dei più profondi filosofi degli Stati Uniti, esprimeva lo stesso concetto in maniera lievemente diversa. Sosteneva cioè che il bisogno più sentito della natura umana è "il desiderio di essere importanti". Ricordatevi questo concettino: "il desiderio di essere importanti".
Non c’è un desiderio più grande per dei bambini o degli adolescenti che essere importanti per qualcuno. E l’obiettivo più ambito dei docenti non può che essere quello di veder diventar grandi i propri alunni.
Come mai allora la relazione è così complicata se noi vogliamo quello che vogliono loro?
Quando comunichiamo potremmo interrogarci se lo scopo della nostra comunicazione allo studente o alla classe sia di innalzare o affossare.
Se nel mio dialogo con i miei alunni, emerge un obiettivo finale, esplicitato e realizzato, di attribuire loro importanza, di fornire strumenti utili, di renderli forti per crescere, vivere e fiorire, credo che, pur con tutti i limiti e gli intoppi inevitabili, la base della relazione sia presente. E sarà quella il punto da cui partire ogni volta che la relazione stessa si incrina.
Che ne pensi?
Qual è la tua esperienza?
Ti andrebbe di raccontarmi qualcosa?
Buon caffè, alla prossima.
Simona
Puoi trovare questa lettera sul sito dell’Archivio del Congresso degli Stati Uniti, a questo link: https://www.loc.gov/resource/mal.2480600/?st=text
Stupendo, Simo, quello che scrivi. A parte l'aneddoto che utilizzi, mi sembra proprio indispensabile che ognuno di noi - come persona, mi verrebbe da dire, innanzitutto - si ponga nella prospettiva di Lincoln. Riguardo al fatto di che cosa comunichiamo quando siamo in classe, penso che si debba rifletterne molto a lungo. Perché ci sarà una ragione per la quale gli studenti pensano che 'noi' abbiamo altro scopo rispetto a loro...