🙀Toh, guarda ci sei anche tu?!
Questa è la quindicesima newsletter del 2024. Parliamo di "come guardare" i genitori.
Voglio, questa volta, scendere metaforicamente dalla cattedra (mio figlio ieri mi accusava di essere troppo una prof) e parlare da mamma.
Se gli insegnanti sono il bersaglio preferito quando le cose vanno male, non è che i genitori, come categoria sociale, se la passino meglio. Le mamme, poi, abbiamo scoperto, sono l’origine dei mali del mondo.
Esagero?
Può darsi. Su Vanity Fair Matteo Lancini, presidente della Cooperativa Il Minotauro che da una vita invita all’autorevolezza genitoriale, spiega (presentando il suo libro “Sii te stesso a modo mio”):
“Invece, sempre più spesso, i genitori (ma anche gli insegnanti) agiscono per pura necessità di sentirsi autorevoli e in pace con se stessi per avere svolto il proprio ruolo educativo. Chiedono ai figli di non esprimere difficoltà e delusioni, perché questo li addolorerebbe («eppure ho fatto così tanto per te»): chiedono loro di farli sentire adeguati anziché esprimere i loro bisogni. Ascoltano, ma non sentono”.
Non parliamo poi dei genitori “amici dei figli” su cui punta il dito Umberto Galimberti e che vogliono solo che i figli siano felici e contenti, se pur asini.
Se cerchiamo una parola di conforto, sicuramente Paolo Crepet, da bravo psicologo, ci assegna il colpo di grazia, con la colpa dei genitori che si fanno “servi dei propri figli”.
Se esagero ancora (ma avete notato che sono tutti grandi nomi) e, dopo una veloce ricerca su Google, non ti sei ancora ricreduto o ricreduta, ti cedo il posto per un colloquio con gli insegnanti.
Perché tutti quei giudizi, pesantissimi, su come educo male i miei figli, nessun insegnante me li ha rivolti. Non direttamente. Questo lo fanno gli psicologi.
Gli insegnanti ti guardano con quelle parole.
Attraverso quelle parole.
Dentro quelle parole.
Ogni volta mi sedevo sulla sedia, in punta perché mi sentivo a disagio da morire, e lo sguardo del mio collega dall’altra parte mi diceva: “Ma proprio tu, che sei un’insegnante? Ma che razza di madre sei? Tuo figlio è un disperato, lo distruggi”.
Gli insegnanti a colloquio, quelli bravi, ti danno consigli, ti dicono anche che ci sono delle cose positive, ti fanno un quadro della situazione edulcorato in cui vedi tuo figlio precipitare nelle peggiori disgrazie dell’universo, solo e triste, voltandoti le spalle perché sei una madre che non ha saputo dargli affetto e comprensione.
Perché, nel mentre che cresceva, tu dovevi lottare contro giudici e tribunali che prestavano orecchio alle accuse del tuo ex che chiedeva che te lo portassero via per mandarlo in comunità, altrove, comunque non con te.
Perché quando tuo figlio piangeva perché voleva stare con la mamma, qualcuno glielo vietava e per quanto tu lo ripetessi, nessuno ha ascoltato. Né te né lui.
Perché nel caos del traffico tu non potevi chiedere aiuto ai nonni lontani (come tutti o quasi) e tuo figlio doveva rimanere ad aspettarti a scuola, dopo che tutti se ne erano andati.
E tutti quei flash che ti si accalcano negli occhi, gonfiano il cuore. Se ci fosse un posto per il gradino più infimo che spetta all’essere umano più abietto, lo sceglieresti per te.
Le storie che ci sono dietro gli occhi delle persone sono molto più aggrovigliate di come le vedono gli altri.
Certo, un genitore a colloquio vuole sapere come sta andando figlio.
Certo, come docenti dobbiamo spiegare qual è il rendimento e quali sono i punti da migliorare.
Certo, la scuola è fatta così.
Ma è una scuola che non aiuta. Che non cerca un miglioramento. Che non racconta una storia migliore.
Ed è quello che ogni genitore vorrebbe sentire quando si siede ad un colloquio: una storia diversa. Che suo figlio ce la fa anche senza di lui, che è forte perché qualcuno l’ha spinto, che ha delle possibilità perché ha fatto dei passi avanti.
Vuoi sapere davvero che succede a un certo punto? A un certo punto, presumibilmente durante l’adolescenza, l’unico contenuto dei discorsi tra genitori e figli, diventa il voto a scuola. E su questo si incardina una incomprensione e una distanza che scavano l’abisso.
Nelle conversazioni a scuola, i genitori vengono percepiti, non del tutto involontariamente, come un "disturbo" o un "intralcio" nel percorso scolastico dei figli.
Voglio proporre una prospettiva diversa, una visione che non vede i genitori come ostacoli, ma invece come il punto d’accesso necessario dei loro figli. È innegabile che l'adolescenza sia un periodo turbolento, caratterizzato da cambiamenti, sfide e, a volte ferocemente, da un rapporto conflittuale tra genitori e figli.
I ragazzi, come siamo stati anche noi, cercano la loro identità, prendono le distanze dagli adulti, affermano la propria indipendenza.
Ma è proprio qui che gli insegnanti possono svolgere un ruolo cruciale, facendo da ponte tra genitori e figli. E non perché risolviamo i conflitti!
Gli insegnanti hanno l'opportunità unica di riconoscere e rispettare le difficoltà intrinseche nel ruolo genitoriale.
Ok, te lo mostro, che è più facile. Non amo molto fare i colloqui con i genitori: quando li vedo a disagio su quella dannata sedia, mi ritorna alla memoria il mio stare sulle spine nella stessa situazione, non troppi anni fa.
Qualche tempo fa ho chiamato al telefono una mamma perché c’era stato un inghippo con il registro elettronico e non sarebbe arrivata in tempo per il colloquio, ma sapevo che voleva parlarmi.
Le chiedo: “Come vede AX? Come sta?”: è una domanda che faccio sempre, il mio punto di partenza. Ma evidentemente è una cosa che prende alla sprovvista. Perché ogni volta mi trovo a dover contenere un fiume in piena.
In questo caso, la mamma (e la ringrazio ancora per come si è aperta con me) non era preoccupata solo di come andasse il figlio a scuola, con il rischio di un’altra bocciatura. Ma la angustiava il non riuscire a parlare con lui se non della scuola e di come andasse male. Questo stava logorando il loro rapporto, la sua voce si era incrinata dolorosamente.
“No, le ho detto, Lei non può mettere a rischio il rapporto con suo figlio per la scuola. Smetta di chiedergli dei voti”.
“Ma prof, mi dice a una certa, con una vocina sottile, non mi abbraccia neanche più, mi evita proprio”, e io: “Signora, è normale, è un adolescente che cerca di guadagnarsi il suo spazio. Ma capisco cosa vuol dire”.
Poi salgo in classe, vedo AX e gli dico: “Tua mamma è una persona meravigliosa (e diciamolo! santa pazienza!, che c’è bisogno per questi figli di vedere i genitori riconosciuti!) e ti vuole un mondo di bene. Fai una cosa per me? Quando torni a casa, abbracciala”. Chissà perché, i miei studenti si fidano di me. “Va bene, prof”, mi dice.
Poco dopo l’ora di pranzo mi arriva un messaggio:
Nei mesi successivi mi sono arrivati altri messaggi per aggiornarmi sulla situazione: AX è cambiato, ha migliorato la sua situazione scolastica e, per me che lo vedo in classe, è più sereno. Non è un caso isolato, perciò mi sono permessa di portare l’esempio.
Immaginiamo (non costa niente immaginare) una scuola in cui gli insegnanti non solo trasmettono sapere, ma agiscono come mediatori sensibili alle dinamiche familiari, riconoscendo che ogni studente arriva in classe con un bagaglio personale che influisce profondamente sul suo percorso educativo.
E che la presenza dei genitori diventa un valore aggiunto, non un ostacolo. (Perché c’è anche chi i genitori non li ha, per esempio). E magari, restituire un’immagine positiva dei genitori ai figli può confortare l’immagine interiore della figura adulta, oltre a convalidare l’autorevolezza dei docenti (che sono sempre adulti).
La realtà è che, nonostante l'impegno costante e le migliori intenzioni, molti genitori navigano il mare dell'educazione familiare senza una bussola che indichi loro se la direzione presa sia quella giusta.
Un feedback positivo da parte degli insegnanti può fungere da conferma esterna che rafforza la fiducia dei genitori nelle proprie azioni educative.
Ma perché aggiungere questa incombenza al già strapieno bagaglio di responsabilità di un docente? Stiamo sovraccaricando il sistema!
Qua non si tratta di acquisire altre competenze. Si tratta invece di vedere la persona, lo studente, all’interno di un sistema relazionale più ampio: questo comporta, in una visione più ampia, che piccoli gesti possono produrre enormi risultati. E comunque che ci costa dire due parole pensate in più?
Quando un genitore sente che gli sforzi di educare un figlio adolescente vengono riconosciuti e apprezzati, questo non solo aumenta la sua autostima come educatore, ma rafforza anche il legame con la scuola.
Inoltre, quando gli insegnanti comunicano apprezzamento per il lavoro svolto dai genitori, si crea un circolo virtuoso di riconoscimento e stima reciproca. I genitori, sentendosi valorizzati, diventano più inclini a supportare l'istituzione scolastica, collaborando attivamente per il benessere e la crescita culturale dei propri figli. Questo rafforzamento del rapporto scuola-famiglia non fa bene solo agli adulti, ma soprattutto agli studenti, che vedono le figure genitoriali e gli insegnanti unire le forze in un fronte educativo coeso.
Il riconoscimento da parte della scuola del ruolo dei genitori (lontano dalla formalità legale, ma sincero) non solo legittima la loro autorità educativa, ma contribuisce anche a consolidare la figura dell'adulto come punto di riferimento autorevole per gli adolescenti.
In un'epoca in cui il ruolo degli adulti viene spesso messo in discussione, la validazione dell'autorità genitoriale e scolastica da parte di entrambe le parti è nodale per garantire che i più giovani ricevano messaggi coerenti e costruttivi riguardo alla vita, agli studi e al loro futuro.
Qualche domenica fa, a tavola, una mia amica redarguì mio figlio (mentre a me usciva fuori la vena dell’ira funesta sul collo e sulla fronte, va’ che sono una roba brutta, incazzata) sostenendo che non mi sarei dovuta preoccupare di quello che lui fa a scuola, perché è il suo compito e doveva essere pacifico che lui ha da fare il suo.
Sono d’accordo: i voti e il rendimento devono occupare un posto limitato nelle discussioni (e nei conflitti) tra genitori e figli. E su questo gli insegnanti possono fare molto interrompendo il circolo vizioso: “per la società sono un bravo genitore perché mio figlio va bene a scuola, quindi l’unica cosa che mi importa è questa perché se mio figlio prende brutti voti non ho cresciuto un ragazzo o una ragazza che vale, non gli sto dando opportunità, e se sarà un fallito sarà tutta colpa mia”.
Per interrompere tutto ciò, serve una narrazione diversa. Le situazioni disfunzionali (che ci sono, è ovvio) emergeranno con molta più chiarezza perché non saranno perse nella massa aggrovigliata dei mille problemi.
A scuola ci servono parole diverse. Servono anche dei diversi occhiali con delle lenti che ci liberino dai preconcetti con cui un certo psicologismo ha voluto assuefarci. Servono parole libere.
"La libertà, Sancho, è uno dei più preziosi doni che i cieli abbiano fatto agli uomini; con essa non possono eguagliarsi i tesori che nasconde la terra né il mare racchiude; per la libertà, così come per l'onore, si può e si deve azzardare la vita”.
Se cerchi parole libere per parlare (con i genitori, in questo caso), continua a seguirmi e, se lo trovi utile, condividi con altri questa newsletter.
Buon caffè e buon lunedì
Simona ☕️
Basta, la smetto (solo) con i complimenti! E ti dirò che 'invecchiando', come mamma e come insegnante, mi sono accorta di non temere più come il fuoco i colloqui con i genitori. E quel "come sta AX?" li spiazza davvero. Ed è TUTTO quello di cui hanno bisogno. Oltre che di uno sguardo da parte di chi è una vita (professionale) che osserva le dinamiche di un adolescente, che 'sa' le tappe che si affrontano, che non è invischiato nei grovigli famigliari. A questo servono i colloqui.
PS Comunque... puntata-bomba! 🎊
Mi hai fatto piangere. Parlavo di me. E non come prof. Grazie.