☀️ #16 Dare senso 1/2
Questa è la sedicesima newsletter del 2025 e sarà divisa in due parti perché era davvero troppo lunga. La questione del "senso" è pervasiva ma inevitabile. E non la eviteremo
L’anello che non tiene
La scorsa settimana ho spiegato la poetica di Eugenio Montale nelle mie quinte. Avevo letto tutte le sue opere in un momento imprecisato del mio percorso scolastico, quando vagavo per le biblioteche a caccia di libri che mi incuriosissero e divoravo qualunque cosa. A scuola non c’era mai stato tempo per approfondirlo. E Montale mi è rimasto dentro.
Come una ferita aperta.
Così ai miei studenti ho dato poche indicazioni sulla sua vita, giusto il concetto di correlativo oggettivo1, e ho chiesto loro di leggere Meriggiare pallido e assorto.
Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d'orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe dei suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano
a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com'è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
Eugenio Montale, in Ossi di seppia
Hanno provato a rifilarmi le spiegazioni del manuale. Ho detto loro di lasciar perdere e di immergersi nella poesia. Volevo che si lasciassero attraversare da quei versi.
Se sono riuscita a capirla io alla loro età, potevano provarci anche loro.
Il paesaggio, colto nel momento assolato del meriggio, rappresenta, come avevo anticipato, “il male di vivere”, secondo la logica del correlativo oggettivo.
Quali parole permettono di cogliere il male di vivere? E che cos’è, in fondo, questo male di vivere? Non so bene se interrogassi loro o me stessa, o forse entrambe le cose.
Ho chiesto di sentire il peso di quel sole che blocca il tempo della vita in un infinito presente (ci sono soprattutto verbi all’infinito, posti all’inizio dei versi), la natura che si spezza in suoni duri e secchi (senti le allitterazioni), le immagini della terra talmente secca da spaccarsi. Che cosa poteva mai rappresentare un paesaggio così riarso, se non il disagio esistenziale2? (qui ho collegato Spesso il male di vivere ho incontrato e la foglia riarsa).
In che cosa si concretizza, nella poesia, questo disagio esistenziale?
Due volte, all’inizio e alla fine, compare il muro, che poi diventa muraglia, invalicabile, sormontata da cocci aguzzi di bottiglia. L’angoscia di sentirsi gettati in una vita senza conoscerne il senso è il muro rovente.

E tuttavia, dico ai miei studenti, per Montale non è la muraglia la parte importante su cui soffermarsi: la lezione ermetica ha lasciato tracce. Non è l’evidente ciò su cui deve posarsi lo sguardo. Il poeta lascia sempre un varco, un anello che non tiene, un segreto: dov’è, nel pomeriggio rovente, con il muro davanti, quel respiro possibile?
Quando intuiscono che c’è un punto di fuga, quegli spruzzi di mare che rinfrescano l’anima, il palpitare di una possibilità di senso – lontana, forse, e difficile da afferrare – anche a me sembra di intravedere un quid che “ci metta nel mezzo di una verità”.
Il mercato dei perché
Viviamo in un’epoca ossessionata dal “perché”. Se vuoi avviare un business, la chiave è trovare il tuo why, come spiega Simon Sinek nel celebre TED Talk (un must per chi si occupa di business o crescita personale):
La gente non compra quello che fai, compra perché lo fai.
Significa che le persone sono attratte non tanto dai prodotti o servizi in sé, ma dalle motivazioni, dai valori, dallo scopo profondo che li guida.
Il titolo del video è significativo: How great leaders inspire action. E noi, come insegnanti, dovremmo (o perlomeno ci viene chiesto di) essere leader, capaci di ispirare i nostri studenti a studiare.
Ditemi che non è così.
Forse Sinek ha qualcosa da dire anche a noi:
Perché Martin Luther King ha guidato il movimento per i diritti civili?
Non era l’unico a soffrire nell’America pre-diritti civili, e non era l’unico grande oratore del suo tempo. Perché proprio lui?
(…) Tutti i grandi leader e organizzazioni del mondo, da Apple a Martin Luther King, pensano, agiscono e comunicano esattamente allo stesso modo – in modo opposto rispetto a tutti gli altri. (…) Ma pochissime persone o organizzazioni sanno davvero perché fanno quello che fanno. E con “perché”, non intendo fare profitto.
(…) Intendo: qual è il tuo scopo? La tua causa? La tua convinzione?
Questo discorso è diventato così virale che persino per adottare una nuova abitudine nella nostra routine quotidiana serve sapere il proprio perché. Guru, influencer e coach – a volte con discutibili competenze – ripetono instancabilmente questo mantra.
E se ci fosse una svendita di “perché”, sarebbe presa d’assalto come il Black Friday da Macy’s.
Tuttavia, come tutto ciò che è moda nell’epoca del fast fashion, anche i “perché” a buon mercato finiscono presto nel dimenticatoio.
Il bisogno di senso
Il bombardamento sul “why” è così pervasivo che su TikTok, tra calciatori e rotondità in bella mostra, spuntano anche questi contenuti.
Gli adolescenti conoscono il “discorso” meglio di noi. E lo rifiutano.
Appaiono impermeabili alle conseguenze, spesso senza memoria del passato.
Vivono in un eterno presente. Non è sbagliato vivere nel presente. Ma, per quanto riesco a osservare, questo presente, “eternamente” presente, si traduce nel godere – o consumare – l’attimo, e attendere che i momenti vuoti (come le lezioni) passino per far spazio ad altri attimi “da godere”.
Senza che questi si leghino tra loro. Come nel film Cambia la tua vita in un click dove Adam Sandler, avuto in dono un telecomando universale, manda avanti i momenti di fatica per godersi solo quelli “belli”.
Lewis Carroll, in Alice nel Paese delle Meraviglie, scrive:
«Potresti dirmi, per favore, che strada devo prendere?» chiese Alice.
«Dipende molto da dove vuoi andare» rispose il Gatto.
«Non importa dove…» disse Alice.
«Allora non importa che strada prendi», rispose il Gatto.
Tutti noi siamo mossi dal bisogno di dare senso alle cose.
Il Golden Circle di Sinek ha indubbiamente validità (anche per questo ha avuto tanta fortuna), ma c’è un dettaglio di cui si parla poco: gli esempi. Martin Luther King, e non un qualunque altro predicatore; i fratelli Wright e non Samuel Langley; Apple e non Gateway. Uno su mille ce la fa, perché ha un “perché” più forte e più convincente degli altri.
In realtà, ci sono persone che non assurgono agli onori della cronaca, ma vivono lo stesso all’altezza delle domande di senso che tutti ci portiamo dentro. Non è certo la visibilità che garantisce l’aver trovato senso in quello che si fa ogni giorno nella propria vita.
Che significa dunque dare senso?
Che cos’è il senso di qualcosa? Di me?
E come questo si riversa nella vita quotidiana?
Non sarò Martin Luther King, ma non per questo la mia esistenza deve restare senza un perché. Anche io, come Montale, osservo tra frondi scaglie di mare.
Buon caffè ☕
Simona
Il correlativo oggettivo è una tecnica letteraria che consiste nel rappresentare un’emozione attraverso una sequenza di oggetti, situazioni o immagini che la evochino, senza nominarla direttamente. In questo modo il lettore “sente” l’emozione senza bisogno che sia esplicitata. T. S. Eliot introduce il termine nel saggio Hamlet and His Problems (1919). Secondo lui, per esprimere un sentimento in modo efficace, devi trovare una formula esterna (una situazione, un insieme di immagini, un gesto) che lo evochi automaticamente nel lettore.
“Il solo modo di esprimere un’emozione in arte è trovare un correlativo oggettivo.”
Nell’Amleto, secondo Eliot, manca un vero correlativo oggettivo: il protagonista ha un tormento interiore troppo vago e sproporzionato rispetto alle azioni concrete della trama. Eugenio Montale fa suo questo concetto, pur senza mai teorizzarlo direttamente. Nelle sue poesie, il paesaggio, gli oggetti, i suoni diventano trasposizioni concrete di uno stato interiore. Il sentimento non viene descritto, ma suggerito attraverso immagini:
In Meriggiare pallido e assorto, la calura, il muro, i cocci di bottiglia evocano il male di vivere, l’angoscia e il senso di prigionia esistenziale.
In Spesso il male di vivere ho incontrato, sono l’acqua stagnante, la foglia riarsa e il cavallo stramazzato a rappresentare la sofferenza esistenziale (ma c’è anche il correlativo che si sviluppa in senso verticale: la statua, la nuvola, il falco).
Secondo Montale, il male di vivere è una condizione intrinseca all’esistenza umana. Si manifesta come noia, disagio esistenziale, ansia profonda, ed è qualcosa da cui non si può sfuggire. Questa visione pessimistica della vita si ricollega alla riflessione di Giacomo Leopardi, in particolare a opere come le Operette morali o La quiete dopo la tempesta, dove emerge l’idea che il dolore sia una componente ineliminabile del vivere. Tuttavia il disagio esistenziale è un tema centrale della filosofia contemporanea e della psicologia esistenziale. Ad esempio, Kierkegaard definisce l’angoscia come la “vertigine della libertà”: ogni scelta comporta rinunce e incertezza. Solo la fede può dare senso e orientamento; Heidegger parla di “essere-per-la-morte”: l’angoscia rivela la finitezza dell’esistenza e apre alla vita autentica, fondata su responsabilità e consapevolezza; Sartre interpreta l’angoscia come la responsabilità assoluta di creare se stessi in assenza di valori predefiniti. L’uomo è condannato a essere libero. Anche lo psicanalista Carl Gustav Jung sostiene che l’essere umano è naturalmente portato a cercare senso. Quando questo manca, si può cadere nel disorientamento e nella depressione esistenziale.