🍂 Caro Settembre...
Questa è la trentanovesima newsletter del 2024, dove mi lamento del mio Settembre, delle foglie cadute e delle aspettative deluse. E dello studio più lungo al mondo sulla felicità.
Caro Settembre,
Parliamo un po’, io e te. Ti offro un caffè, in amicizia.
Quando ogni anno, ci troviamo di nuovo, mi fai provare quel pizzico di malinconia per la fine dell’estate e la curiosità frizzante come l’arietta autunnale per l’anno che inizia.
Durante l’estate mi vengono tante idee, voglio fare questo e anche quest’altro, e magari provare quell’altra strategia didattica, il nuovo manuale è pieno di spunti, voglio portare in giro i ragazzi a vedere, sperimentare, stupirsi…
I primi giorni è tutta un’attesa: metto a punto il mio piano di lavoro, cerco fonti, testi, documentari, comincio a strutturare lezioni e segnare le verifiche… Insomma, l’emozione dell’ “incomincio di nuovo”. Sono piena di aspettative.
Quest’anno i ragazzi sono un po’ più grandi, anche i miei figli, sarà entusiasmante!
E invece…
E invece mi smonti tutto in tempo zero. Io ci resto male, lo devi sapere.
Perché la distanza tra quelle che sono le mie aspettative all’inizio e la realtà con cui mi scontro quasi subito mi fa trasecolare (per essere carina, che qua ci leggono un po’ troppe persone).
Ci resto male, te lo dico, con il cuore: ci resto male di brutto.
Bastano davvero pochi giorni e… i miei progetti devono cambiare segno perché all’ultimo momento la preside mi “molla” tutoraggio e coordinamento delle quinte di maturità, il giorno libero che mi serviva e che avevo chiesto non lo concedono, i miei figli che sembravano tanto ben avviati, mi fanno imbestialire da quando si alzano a quando se ne vanno (finalmente!) a dormire, devo continuare?
Ecco, io quasi quasi vorrei scappare. Vorrei tornare ad agosto, c’era caldo sì, ma almeno non mi trovo bloccata in macchina sotto la grandine che rimbomba sul tettuccio.
Almeno non devo discutere con i miei colleghi e ricomporre dispute.
Almeno non sono costretta a spiegare in un’ora due Unità didattiche (60 pagine in 40 minuti!). O inventare una lezione semplicemente perché quello che avevo preparato non si adatta alle persone che ho davanti.
Non potresti arrivare con una bella realtà confezionata apposta per me?
Magari anche una scuola sorridente con gli studenti che mi permettono di fare lezioni folgoranti e non continuare a dire alle capre diciottenni: “Allora, sto quaderno?”.
Francesco Oggiano (quello di Will Media) ha riportato una notizia che condivido qui. Nicholas Perry ha “ingannato” per anni il suo pubblico, il quale pensava che il povero Perry fosse in fin di vita perché, obeso, continuava a mangiare. E lui glielo faceva credere. Poi ha rivelato con un eccezionale colpo di scena che non era assolutamente vero. O meglio, è stato vero fino a un certo punto, poi si è inventato questo plot twist fenomenale.
E se effettivamente con i primi cellulari che integrano l’AI come il Pixel 9 di Google (il link apre un reel Instagram di @upgrade_ita) possiamo modificare la realtà che fotografiamo, posso avere paura del futuro che ci aspetta fino a quando non penso che anche io posso crearmi la mia personale realtà.

Io lo so, Settembre, che non lo fai per male. Vuoi dire che ogni tanto cado nella trappola di crearmi una realtà che va bene solo a me? Mah, non so…
Vorresti lasciare intendere che la possibilità di manipolare la realtà costruendone una a nostro piacimento fa parte delle debolezze degli esseri umani da milioni di anni? Fai Leopardi1 di cognome? Anche tu con la storia delle illusioni?
Qualcosa di simile?
Non mi stai convincendo, vorrei che lo capissi. La realtà fa schifo.
E insomma, Settembre, dopo l’effetto WoW dell’inizio, sei una delusione dopo l’altra.
Se conosco il dottor Waldinger? No, non so chi sia. Che dice? Dice che per una vita felice occorrono relazioni. E che c’entra, ora?
Vabbè cerco, sei chiacchierone come Socrate dopo che ha mandato giù la cicuta.

Questo? Il dottor Waldinger che ha condotto lo studio più lungo al mondo sulla felicità: è iniziato nel 1938 e dura ancora oggi, e si propone di seguire le vite di tanti per più di 80 anni. Originariamente includeva 724 uomini, divisi in due gruppi: studenti di Harvard e ragazzi provenienti dai quartieri più poveri di Boston. Successivamente, lo studio è stato esteso alle mogli e ai discendenti dei partecipanti originali. I ricercatori hanno raccolto dati attraverso interviste, questionari, esami medici e scansioni cerebrali.
Bravi, e cosa hanno scoperto?
Che le relazioni sociali sono fondamentali per la felicità e la longevità,
che la qualità delle relazioni è più importante della quantità,
che le buone relazioni proteggono non solo la salute emotiva, ma anche quella fisica.
Non lo sapevamo già?
Mi critichi perché desidero che la realtà sia migliore di quella che è?
Boh, fammi pensare.
Se tutti facessero come dico io, il mondo sarebbe un posto migliore, come diceva Mafalda.
La realtà (che fa schifo, e ci resto male, non dimenticartelo) mi ridimensiona l’ego. Non sono Vodafone, non gira tutto intorno a me, e devo andare a caccia di un significato anche nella gabbia dei matti.
Forse uno dei motivi per cui le cose a volte vanno male è che un po’ soffro (come tanti altri) del bias della conferma: mi costruisco le mie sicurezze illusorie, in cui vorrei vivere sempre, e tutto quello che mi circonda lo utilizzo per confermare e rafforzare i miei pensieri. Senza neanche bisogno della AI (anche perché nel caso sono io che uso l’AI per crearmi la mia personale realtà).
Insomma non ho bisogno dell’AI per crearmi un mondo a mio gusto.
Ma se dobbiamo dare un senso al nostro essere nel mondo, non potrebbe essere quello di fare la nostra parte, per rendere il mondo un posto migliore per noi stessi e per gli altri? E questo non sarebbe un buon lascito per i nostri figli e studenti?
La ricerca di Waldinger illustra con dovizia di dati che le relazioni sono la chiave per vivere bene, felici e in salute. E quindi, devo per forza abbattere il velo di ciò che vorrei (le mie dorate aspettative) e fare i conti con chi ho davanti.
È la realtà che vivo il contenitore di possibili relazioni, nel senso che è l’unica condizione attraverso cui le relazioni diventano concrete.
Se veramente, come tanti luminari si sgolano a ripetere, è la relazione la base dell’insegnamento, dovrei forse più spesso guardare i miei scombinatissimi studenti, i colleghi rompipalle, quei disastri di genitori (mi ci metto anche io) per quello che sono e non per quello che vorrei che fossero.
Allo stesso modo in cui quando correggo le verifiche sottolineo con convinto vigore l’uso dell’a senz’acca. Potrei effettivamente cullarmi nell’idea di avere compiti perfetti… ma qualcosa in me si agita e mi infastidisce, non mi fa stare a posto.
Settembre caro, comunque è colpa tua. Potevi fare a meno di fracassare così le mie aspettative. Magari lasciavi l’incombenza a Novembre, o ancora meglio a Gennaio…
Questa settimana che inizia, che piano piano cede il passo a Ottobre, chiude anche il terzo trimestre. Se questa è la tua lezione, Settembre, sarà importante che cerchi di migliorare quello che faccio ogni giorno. I prossimi tre mesi saranno “impegnativi” per usare un eufemismo.
Mi viene in mente il metodo 70-20-10, te lo ricordi? Sì, il modello 70-20-102 è ritenuto un approccio olistico all'apprendimento professionale perché considera l’esperienza pratica, le interazioni sociali e anche la formazione formale nel processo di sviluppo di competenze superiori.
Il 70% delle conoscenze viene acquisita attraverso esperienze dirette sul lavoro. Questo include la pratica quotidiana, la risoluzione di problemi reali e l'interazione con le dinamiche lavorative. L'apprendimento avviene in modo informale, spesso senza una struttura formale: quindi si tratta di apprendimento esperienziale.
Circa il 20% delle competenze invece proviene dall'interazione con colleghi, mentori (sì a scuola ci sono anche i colleghi che illuminano quello che faccio) e preside (più provveditorato, ministero etc). Questo aspetto enfatizza l'importanza della condivisione delle conoscenze all'interno di una comunità lavorativa.
E chi l’avrebbe detto? Solo il 10% delle conoscenze è acquisito tramite corsi formali, seminari o eventi di formazione strutturati. Sebbene questa parte sia la più piccola, fornisce le basi teoriche su cui si costruiscono le esperienze pratiche.
Anche in questo modello la realtà è il canale privilegiato perché io possa migliorare la mia professionalità, sopratutto in merito al fatto di rendere concretizzabile una teorica applicazione della didattica. Brutalmente, le teorie super fighe che leggiamo nei libri o ascoltiamo dai guru nei corsi di formazione, quando le applico nella mia classettina sfigatina non sono così esaltanti… quindi vanno calate nella realtà, rese possibili nella contingenza che vivo, adattate a quello che ho.
Alcuni suggerimenti per adattare il modello 70-20-10 al contesto dell'insegnamento:
- 70% apprendimento esperienziale:
Sperimentazione di nuove tecniche didattiche in classe
Gestione di situazioni impreviste durante le lezioni
Adattamento dei metodi di insegnamento a diverse esigenze degli studenti
Riflettere regolarmente sulle esperienze in classe per adattare tue strategie
- 20% apprendimento attraverso interazioni con colleghi e studenti:
Collaborazione con colleghi per la pianificazione delle lezioni
Partecipazione a comunità di pratica per insegnanti
Richiedi e offri osservazioni in classe tra pari
Organizza momenti di feedback con i tuoi studenti
Collabora con un insegnante più esperto o diventa mentore per insegnanti più giovani
- 10% apprendimento formale:
Partecipazione a workshop e seminari su metodologie didattiche innovative
Webinar su nuove tecnologie educative
Lettura di pubblicazioni nel campo dell’educazione
Paretcipare a eventi e convegni sull’educazione
A proposito, il 1 ottobre ci sarà Galimberti all’Auditorium comunale di Nova Milanese (MB), l’evento è gratuito ma i posti sono limitati (e sono quasi finiti). Ci sarai?
Tu Settembre no, lo so. Io sì.
Buon caffè
Simona ☕️
Leopardi vedeva le illusioni come un elemento fondamentale della condizione umana, una sorta di meccanismo di difesa psicologico che l'umanità ha sviluppato per far fronte all'implacabile realtà dell'esistenza. Secondo il poeta, la vita è intrinsecamente dolorosa, priva di un significato intrinseco e caratterizzata da una sofferenza costante. In questo contesto, le illusioni emergono come l'unico strumento a disposizione dell'essere umano per sopportare il peso schiacciante di questa consapevolezza. Il poeta riconosceva che, paradossalmente, è proprio attraverso queste costruzioni mentali che l'uomo riesce a sperimentare momenti di felicità e a trovare la forza per andare avanti. Le illusioni, pur essendo ingannevoli, diventano così l'unico appiglio a cui l'umanità può aggrapparsi per non soccombere al nichilismo e alla disperazione. Esse rappresentano una forma di resistenza contro l'indifferenza dell'universo, un modo per creare significato in un mondo che ne è privo. Tuttavia, questa consapevolezza produceva nell’artista una profonda amarezza. Cosa che emerge nelle sue liriche.
Questo approccio prende le mosse dal concetto di apprendimento di Lewin che individua un apprendimento formale, diverso ma non meno intenso dall’apprendimento non formale. Il modello è stato sviluppato negli anni '80 da Morgan McCall, Robert W. Eichinger e Michael M. Lombardo, e si basa sull'analisi delle esperienze di circa 200 dirigenti riguardo ai momenti chiave della loro carriera e ai loro apprendimenti. Una delle critiche principali è che il modello manca di una solida base empirica. È stato sviluppato sulla base di un sondaggio condotto su circa 200 dirigenti, il che non fornisce dati sufficienti per convalidare le proporzioni specifiche di apprendimento (70%, 20%, 10%). Molti esperti sostengono che la metodologia utilizzata per raccogliere queste informazioni non fosse rigorosa e che i risultati siano stati influenzati da bias di selezione, poiché si basavano su manager già di successo. Il modello 70-20-10 offre un framework utile per comprendere le dinamiche dell'apprendimento nel contesto lavorativo (che è quello che ci interessa qui), le sue limitazioni evidenziano la necessità di altri approcci per implementare competenze più complesse.