La scorsa settimana ti ho salutata o salutato con una domanda: quale è lo scopo della tua comunicazione? Affossare o innalzare?
Non sono il migliore esempio di insegnante perciò ci sono giorni in cui le risatine e i commenti irrispettosi dei miei studenti mi indispongono e mi indispettiscono, quando li sento volare in classe. E sì certamente vorrei affossare quella presunzione tutta loro di chi non ha ancora l’umiltà di confrontarsi con le esperienze altrui e allo stesso tempo la sofferenza di chi cerca di ridefinire se stesso, al contrario degli adulti che sanno già tutto e non si interrogano mai.
Qua ho fatto una piccola mappa di quello che ho detto in precedenza.
Penso che sia impossibile non accorgersi che il mio intento non è stupire con effetti speciali o urlare il ritrovato miracoloso dell’insegnamento. Condivido qui l’avventura di mettersi in discussione costantemente allo scopo di migliorare la mia (e spero la tua, così può diventare la nostra) consapevolezza nel fare quello che faccio ogni giorno.
Mi fermo su quell’aspirare alla grandezza che dovremmo desiderare per i nostri studenti.
Mi fermo su questo perché la mia amica Teresa mi ha detto alcune cose e io non voglio trascurare niente.
Mi fermo perché dare per scontate le cose non è nel mio stile e comunicare è un’arte in cui il tempo leviga le parole e ci sono parole su cui sostare.
Perché dovrei innalzare un’altra persona che non sia io? Per quale motivo dovrei aspirare a far sì che un altro e non io giunga alla grandezza? Perché mai dovrei cedere il mio sentirmi importante per fare spazio a delle persone che in fondo non lo meritano, o perlomeno non quanto lo merito io?
Sento i pensieri che si muovono nella tua testa: ma certo, io sono l’adulto; è giusto valorizzare il più possibile gli studenti; bisogna insegnare l’autostima; poverini sono così fragili…
Sono tutte cose giustissime ma se voglio una relazione che funzioni davvero non posso barare. I bambini e gli adolescenti fiutano moralismi e falsità, non c’è da scherzare. (Certo poi accade che inizino a diventare adulti e imparino l’arte della menzogna…)
Se in una relazione tra pari, io ho il mio vantaggio di uno scambio e di una reciprocità che allieta il mio spirito come io mi industrio di fare nei confronti dei miei pari, appunto, in una relazione dispari dove io sono l’elemento più forte quale sarà il mio vantaggio?
Questa modalità di pensiero trova le sue radici nell’utilitarismo: la mia guida morale nel fare le cose è il vantaggio che posso trarne. Se quando nasce come teoria etica, l’utilitarismo si poneva in contrapposizione con il pensiero religioso dominante, nella nostra routine quotidiana non ci facciamo neanche più caso: è abbastanza ovvio, persino banale, che se faccio qualcosa ne avrò un tornaconto.
Ora più che mai ritengo sia fondamentale riposizionare il mio agire in un ruolo che, anche se non ci faccio caso, non vigilo e non lo desidero, è educativo. Cedere lo spazio alla grandezza possibile di questi studenti (che a volte sono simpatici e industriosi e tutte le altre volte no) non è un’operazione così semplice. Non è un caso che sempre più facilmente si verifichino situazioni (non ultimo quello dei voti del maestro Gabriele) in cui gli studenti sono usati come strumenti per mettersi in mostra, ottenere like e visibilità.
Non mi interessa indagare i confini in cui dovrebbe essere possibile fare ciò o giudicare quando come e perché è lecito o non lecito farlo, né tantomeno discutere sulle intenzioni personali di ciascuno. Parto sempre dal presupposto che le persone che incontro sono mosse da valori di alto livello e da nobili slanci. Tuttavia ciò non basta.
Sulla punta della piramide dei bisogni di Maslow ci sta sempre l’autorealizzazione, quel “sentirsi importanti” che fa stare sulla cima del mondo. Perseguiamo infaticabilmente l’apprezzamento altrui, diceva qualcuno di cui adesso mi sfugge il nome.
Per questo, insegnare è uno dei lavori più frustranti: perché è più facile che arrivino critiche, lamentele e attacchi piuttosto che apprezzamenti. Sbaglio?
A me piace essere apprezzata per quello che faccio, a te no? A maggior ragione nel mio lavoro, per quanto mi impegno e mi ingegno a studiare e a scovare strategie e metodi per migliorare la qualità del mio insegnamento. Anche i nostri alunni desiderano essere apprezzati per quello che fanno. Per la scuola o per tutt’altro. Anche quando alzano le spalle in una finta noncuranza.
Come si concilia l’innalzare gli studenti se io voglio essere innalzata? Devo farmi da parte? Accettare di non avere valore? Brillare di luce riflessa per i loro successi?
No, assolutamente.
Niente di tutto ciò.
Questa sarebbe una visione del mondo in cui al mio vantaggio corrisponde lo svantaggio di altri, come se l’attenzione, il sentirsi importanti, fosse una quantità stabilita da accaparrarsi. E in generale è così: se è visibile uno, l’altro viene oscurato.
Ci ho pensato in diverse occasioni. È un quesito che dovrebbe interessare maggiormente. Le risposte che diamo a questo interrogativo etico (perché interessa il nostro modo di curare le azioni che hanno un impatti sui nostri studenti) contraddistinguono la nostra professionalità e guidano nelle scelte educative e didattiche che intraprendiamo.
A mio avviso sono tre le domande che dovremmo farci nelle decisioni che affrontiamo:
Quale è il vantaggio per me?
Chi, tra le persone che conosco, potrà trarre vantaggio da questa decisione?
Quale potrebbe essere l’impatto su tutto il mondo di quello che faccio?
Avere come orizzonte il mondo cambia completamente il concetto di vantaggio: non è solo il vantaggio per me, ma anche per chi mi è vicino e forse anche per chi è lontano.
Se il mio insegnare, la mia azione, avviene guardando al vantaggio che posso portare ad altri e al mondo, non posso certamente fermarmi all’apprezzamento momentaneo ma al valore, al peso che il mio gesto può avere. Perché apparteniamo a un mondo e possiamo contribuire (oppure no) a renderlo un posto migliore. Oppure cercare il mio vantaggio e il mio apprezzamento.
Innalzare, far sentire importanti gli altri, suscitare l’aspirazione alla grandezza non necessariamente deve essere uno sforzo. Può semplicemente appartenere ad uno sguardo che scorge nelle pieghe dell’indolenza che anima i banchi la possibilità di partecipare e fare del bene ad altri, alla classe, magari al mondo.
Non significa neanche difendere e giustificare a tutti i costi i giovani e qualunque cosa facciano in nome di una non ben specificata speranza futura, perché si può distinguere un’azione che porta come conseguenza del bene agli altri da una che porta invece come conseguenza del male (che in modo molto terra terra è come si pone la questione morale).
Riflettendo su questo mi domando se dunque possa offrire uno spiraglio di luce rifondare nella dimensione etica l’insegnamento, il lavoro tutto. Ripensare il lavoro che ogni uomo svolge come contributo al ben-essere comune, come costruzione di una comunità dove poter vivere, e di conseguenza l’istruzione con un percorso, una preparazione verso una maggiore responsabilità.
Non vedere solo insomma la scuola e il lavoro come mezzo per diventare ricchi e strumento per spremere soldi per soddisfare le proprie voglie.
Questo è uno sviluppo inatteso rispetto al progetto che mi ero prefissa e mi piacerebbe sapere che cosa ne pensi. Nel frattempo lascerò del tempo a questo aspetto di prendere forma. La prossima volta riprendiamo ad esaminare i modi in cui costruire la relazione con gli studenti e con la classe.
E mantenere come orizzonte il mondo.
Buon caffè ☕️.
Simona
PS: Hai delle preferenze sugli argomenti? Ci sono dei temi che ti piacerebbe affrontare nel diventare un insegnante carismatico? Hai dei dubbi o incontri degli ostacoli? Scrivimi, ti aspetto.
Assolutamente d'accordo, Simo. Ricordo che in uno dei primi lavori destinati ai miei di seconda (nell'estate verso la terza e le scelte che essa avrebbe portato con sé) posi proprio la questione del "che cosa pensi di offrire al mondo, in un futuro?". La necessità di una (nuova) etica dell'insegnamento sai bene che mi interroga da tempo. Dal punto di vista non-professionale, inoltre, ho felicemente accolto una modalità di vivere nella quale il ben-essere comune è la mia priorità.