🚩 Conto alla rovescia
Questa è la quarantacinquesima newsletter del 2024. Dove parliamo di empatia, di contagi e bandiere rosse....
Quando si arriva al ponte di Tutti i Santi, ci chiediamo (lo facciamo tutti, qualcuno lo confessa apertamente) quanto manca a Natale, e quando iniziano le vacanze di Natale, e dove andremo in quel lungo, agognato, periodo di riposo.
L’insostenibile leggerezza dell’insofferenza
La semplice domanda: quanto ancora devo aspettare per arrivare alle vacanze genera però una sorta di insofferenza. Sarebbe utile che io riflettessi sul fatto che per arrivare alle vacanze di Natale dobbiamo arrivare alla settimana n.52 e insomma, mancano 7 settimane. Ma sono già 8 settimane da quando è iniziata la scuola in quel lontano, piovoso giorno di settembre.
L’insofferenza che provo (o proviamo?) nel “mezzo del cammin del primo trimestre” è data anche dalla pressione che subisco perché ci sono le interrogazioni, le verifiche, i compiti in classe, i documenti, le scadenze che affliggono l’universo scolastico (come quello lavorativo). Succede, ma magari succede solo a me, che la punta di insofferenza che si insinua nel pensiero “devo tenere duro ancora 7 settimane”, trascina con sé una caterva di sensazioni ed emozioni negative, come le catene sferraglianti del fantasma di Marley che compare a Scrooge.
Forse non sempre ci accorgiamo quali implicazioni questo porta con sé.
Lo studio di J. Decety
Gli insegnanti non lavorano in un ambiente neutro. Il contesto in cui operano è composto in massima parte di individui in crescita, il che non è uguale a zero.
Gli esseri umani sono tra i pochi mammiferi in cui è normale l’allogenitorialità1, cioè la capacità di prendersi cura di bambini o ragazzi che non sono geneticamente figli: è quello che fanno anche gli insegnanti. Tutto il nostro sistema sociale si basa sul presupposto che un altro adulto possa allevare ed educare mio figlio, che si tratti dell’educatrice del nido, della babysitter o della commessa che sorveglia la classe in mia assenza.
Nello studio di Jean Decety2 (che ti allego alla newsletter), lo studioso propone un modello che descrive l'empatia come un processo complesso composto da meccanismi computazionali distinti, i quali includono rappresentazioni neurali condivise, consapevolezza di sé e regolazione delle emozioni. Questo modello evidenzia che l'empatia non è solo una risposta affettiva, ma include anche componenti cognitive che permettono di comprendere gli stati emotivi altrui mantenendo la propria prospettiva. Decety esplora come l'empatia si sviluppi nel tempo, partendo dall'infanzia e continuando fino all'età adulta. I suoi studi mostrano che l'empatia comprende diversi elementi, tra cui l’attivazione affettiva e la regolazione delle emozioni, ciascuno supportato da specifiche aree cerebrali come l'insula, l'amigdala e la corteccia cingolata anteriore.
Il modo più semplice in cui l’empatia si sviluppa è il “contagio emotivo3”:
Emotional sharing, also called emotional contagion or emotional empathy, generally occurs automatically and unconsciously. It is a widespread phenomenon in a great many species (Mendl et al., 2010). This spontaneous transfer of internal affective states is fundamental for survival, social group cohesion and cooperation. Emotional contagion works as an efficient social learning strategy when a demonstrator and an observer share the same environment, and/or share the same source of danger. Therefore, group-living or gregariousness is one of the key ecological factors favoring the evolution of emotional contagion (Nakahashi & Ohtsuki, 2015).
(Traduzione mia4 in nota).
Quando entro in classe con la mia insofferenza e l’inevitabile catena di fastidi, io entro in un luogo in cui il contagio emotivo ha un’alta incidenza ma non sempre la regolazione emotiva si è pienamente sviluppata. Non solo: il mio ruolo in una classe è quello del “caregiver”, se utilizziamo la terminologia di Decety, poiché in quel momento sono io che mi “prendo cura” dei bambini/ragazzi.
Ho sempre sostenuto che i ragazzi “assorbono” le emozioni che io o altri insegnanti, trasmettiamo, e porto sempre a dimostrazione il fatto che “i ragazzi rispondono” a seconda di come noi, non semplicemente li trattiamo, ma come “siamo” in quel momento.
Mettiamola così: nessuno di noi (adulto o no) è asettico e impersonale. Tutti entriamo con un carico di pensieri, emozioni e anche bisogni o desideri, in classe. Questo carico che ci portiamo dietro si diffonde, contagia, si attacca agli altri.
Se questi altri non hanno raggiunto uno sviluppo tale per cui sono in grado di distinguere tra le emozioni proprie e altrui, il nostro fastidio si comunica più facilmente. Senza filtro, insomma.
Non hai mai notato come alcuni ragazzi si giustifichino dei comportamenti poco corretti a scuola, sostenendo che i prof non li rispettino? Hai mai sentito uno dei tuoi alunni sostenere che “io rispetto se i prof mi rispettano”? Ci farai caso?
Ecco, a volte capita.
“Finally, contrary to a popular view, empathy is not always the best guide for moral behavior because it generates social preferences and favoritism that may conflict with principles of equity and justice (Decety, 2021, Decety and Cowell, 2014, Decety and Cowell, 2015).
(Traduzione mia5 in nota). Non sempre l’empatia è la risposta migliore.
Non sempre il riferimento al “rispetto” da parte dei ragazzi individua una mancanza reale da parte degli adulti (anche perché sono tematiche su cui nella scuola si è lavorato e si lavora da anni). Nel senso: non sempre c’è un dato oggettivo riportato dai ragazzi. C’è però tanto non detto.
Se nella mia catena di insofferenze, lascio spazio al disprezzo per l’ignoranza e l’ineducazione che a volte vediamo nelle nostre aule, anche se fosse generalizzato, il “contagio” colpisce anche gli studenti che reagiscono con quell’incomprensibile (???) disprezzo nei confronti della scuola.
La consapevolezza che le emozioni (anche le mie, le tue, le loro) tracimano come l’acqua da un bicchiere troppo pieno e si “contagiano” dovrebbe accompagnarci più spesso. Non perché le possiamo ignorare o scacciare a comando, ma perché noi, se siamo adulti, sappiamo (se le neuroscienze hanno ragione) come regolarle perché lo abbiamo imparato.
I ragazzi no.
Bandiera rossa
Quando un ragazzo di 15 anni si sente dire dal prof esasperato dal suo comportamento che “ha rotto le palle e che andasse fuori dai cocomeri”, subito si innalza una red flag grande quanto un bastimento.
Mi spiego. L’espressione red flag è un modo di dire in uso tra i ragazzi della GenZ per indicare i comportamenti potenzialmente pericolosi che contraddistinguono le relazioni, amicali o amorose, tossiche. Ho trovato illuminante questo articolo di Siamo Zeta. L’uso del termine è diventato trasversale, perciò potrebbe essere applicato anche al rapporto docente-studenti, in quanto si tratta di una relazione educativa e affettiva.
Eppure se la stessa cosa, la dicesse un prof diverso, nello stesso ragazzo non si innescherebbe il segnale di pericolo. Perché?
Perché tutto sta nella consapevolezza del contagio emotivo.
Troppo spesso diamo per scontato che sia sufficiente essere adulti per essere capaci di qualcosa: non è detto che siccome siamo in cattedra siamo immuni da ansie, frustrazioni, risentimenti… e che queste siano visibili solo a noi.
Cioè: maggiore è la mia consapevolezza delle mie emozioni, sopratutto negative, maggiore sarà la mia capacità di regolarle. Sennò se ne andranno in giro (quelle cattive ragazze!) come il fantasma di Marley a contagiare insicurezze, amarezze, angosce e insulti (inespressi, ma sempre insulti restano) senza che io me ne renda conto, nella mia classe.
La quale è composta di studenti che “restituiscono” quello che ricevono, secondo leggi matematiche che non hanno molto a che fare con la proporzionalità, e che per fortuna mi sono oscure. Quello che so per esperienza è che nel momento in cui faccio inconsapevolmente cadere il disprezzo sulle teste dei miei ragazzi, la loro ribellione arriva puntuale come la terza legge di Newton:
“Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria”.
Se A esercita una forza emotiva su un corpo B, allora il corpo B esercita una forza emotiva uguale e contraria su A. Queste due forze emotive hanno la stessa intensità, ma direzioni opposte.
Ci sono dei modi per scacciare il fardello delle emozioni negative?
Secondo me, scacciare del tutto è impossibile: lo sappiamo che poi i fantasmi ritornano da Scrooge… possiamo però verbalizzare quello che proviamo, quello che può trasformarsi in un contagio negativo. Le parole sono il modo migliore per manifestare la consapevolezza, di questo sono sempre convinta.
Le parole sono, nella mia non modesta opinione, la nostra massima e inesauribile fonte di magia, in grado sia di infliggere dolore che di alleviarlo. (Albus Silente a Harry Potter)
Ma se riesco a trovare altri modi, te lo scriverò…
Buon caffè ☕
Simona
Gli studi sono innumerevoli, ma in questo caso i miei riferimenti provengono dall’articolo di Decety che puoi trovare qui.
Jean Decety è un neuroscienziato franco-americano specializzato in neuroscienze dello sviluppo, neuroscienze affettive e neuroscienze sociali. Attualmente ricopre il ruolo di Irving B. Harris Distinguished Service Professor presso l'Università di Chicago, dove è anche direttore del Social Cognitive Neuroscience Laboratory e della Child NeuroSuite. Ha pubblicato numerose ricerche, in particolare “The sociale neuroscience of Empathy”.
Decety discute il contagio emotivo come una forma basilare di condivisione emotiva che si verifica senza necessità di consapevolezza cosciente. Viene descritto come la tendenza a imitare e sincronizzare automaticamente espressioni facciali, vocalizzazioni, posture e movimenti con quelli di un'altra persona, portando così a un allineamento emotivo con l'altro. Inoltre, secondo Decety, la condivisione delle emozioni, priva di consapevolezza di sé, rappresenta il fenomeno del contagio emotivo, inteso come una “identificazione totale senza distinzione tra i sentimenti propri e quelli dell’altro”.
“La condivisione emotiva, chiamata anche contagio emotivo o empatia emotiva, avviene generalmente in modo automatico e inconscio. È un fenomeno diffuso in molte specie (Mendl et al., 2010). Questo trasferimento spontaneo degli stati affettivi interni è fondamentale per la sopravvivenza, la coesione dei gruppi sociali e la cooperazione. Il contagio emotivo funziona come una strategia efficace di apprendimento sociale quando un dimostratore e un osservatore condividono lo stesso ambiente e/o la stessa fonte di pericolo. Pertanto, la vita di gruppo o la gregariità sono tra i principali fattori ecologici che favoriscono l'evoluzione del contagio emotivo (Nakahashi & Ohtsuki, 2015).”
“Infine, contrariamente a una visione diffusa, l'empatia non è sempre la migliore guida per il comportamento morale, poiché genera preferenze sociali e favoritismi che possono entrare in conflitto con i principi di equità e giustizia (Decety, 2021; Decety e Cowell, 2014; Decety e Cowell, 2015).”