Parole e violenza
Questa è la quarantanovesima newsletter del 2024. Dove indaghiamo l'universo della violenza e la nostra responsabilità di fronte ad essa.
Alle origini della violenza
Il 25 novembre si levano tante voci compatte contro la violenza sulle donne. Le statistiche sui femminicidi ci colpiscono al cuore, e per un giorno ci indigniamo. Ma quante volte ancora accadrà? Quante donne saranno uccise dai loro partner prima che si passi dalle parole ai fatti?
I social, le scuole, i media amplificano messaggi ispirati e accorati. Ma spesso finiscono per essere travolti da altre priorità, come aprire il portafogli a caccia delle offerte per il Black Friday. È facile sentirsi parte del cambiamento per un giorno. Molto più difficile è esserlo davvero, ogni giorno.
La violenza oltre la violenza
Quello che pochi dicono è ciò che accade dopo la denuncia. Denunciare non è la fine della violenza, ma per molte donne è solo l’inizio di una nuova battaglia: quella contro un sistema che spesso non le protegge.
La violenza contro le donne non si esaurisce con l'atto subito, ma spesso continua sotto forma di violenza istituzionale, quando le vittime si trovano ad affrontare un sistema che non garantisce loro il supporto necessario1: le donne, in sostanza, non vengono credute.
La Convenzione di Istanbul (ratificata dall’Italia con la Legge 77/2013) obbliga gli Stati a prevenire la violenza, proteggere le vittime e perseguire i colpevoli. Eppure, il rapporto GREVIO 2020 mostra che il nostro Paese è ben lontano da un’applicazione efficace.
Il rapporto GREVIO valuta l’attuazione della Convenzione di Istanbul in Italia ed evidenzia come il sistema italiano presenti lacune che ostacolano la protezione e il sostegno alle vittime, contribuendo a una nuova forma di discriminazione.
Formazione inadeguata, barriere procedurali e stereotipi di genere lasciano le donne sole davanti a un sistema incapace di agire con coerenza e tempestività.
Protezione?
Nonostante i progressi legislativi, come l’introduzione del “Codice Rosso”, l’intervento si concentra prevalentemente sugli aspetti punitivi, lasciando le donne sole a fronteggiare le conseguenze della denuncia. I centri antiviolenza, spesso gestiti da ONG, rappresentano una risorsa fondamentale, ma la loro distribuzione disomogenea sul territorio e le disparità nei finanziamenti statali creano barriere insormontabili per molte vittime. Questa disuguaglianza nell’accesso ai servizi rappresenta una violazione dei diritti fondamentali delle donne e le espone a ulteriori rischi.
Barriere e stereotipi istituzionali
Uno degli aspetti più critici riguarda le indagini svolte in modo spesso superficiale. Il rapporto evidenzia alti tassi di archiviazione delle denunce e una scarsa attenzione alla raccolta di prove, lasciando molte donne senza giustizia. Inoltre, nei tribunali è ancora diffusa una visione stereotipata della violenza domestica, spesso interpretata come un “conflitto familiare”. Questa minimizzazione non solo sminuisce l’esperienza della vittima, ma perpetua una cultura patriarcale che giustifica la violenza.
Un sistema di supporto frammentato
La Convenzione di Istanbul richiede una risposta integrata e coordinata tra i vari attori istituzionali, ma il rapporto GREVIO sottolinea la mancanza di una comunicazione efficace tra le istituzioni e le organizzazioni che operano sul campo. Questo ostacola la costruzione di una rete di protezione continua per le vittime. Anche i bambini testimoni di violenza domestica, che subiscono traumi profondi, ricevono un’attenzione insufficiente, mettendo in evidenza l’inadeguatezza del sistema nel proteggere le vittime più vulnerabili.
La violazione del principio di dovuta diligenza
Un aspetto particolarmente grave riguarda l’assenza di rimedi per le vittime nei casi in cui le autorità non adottano misure preventive o protettive adeguate. Questo costituisce una violazione degli obblighi sanciti dalla Convenzione di Istanbul e rappresenta una forma di violenza istituzionale. Lo Stato ha il dovere di prevenire, proteggere e punire gli atti di violenza, ma l’inefficacia di molte misure pratiche lascia le donne in balia di un sistema che le tradisce.
Le discriminazioni
Le difficoltà aumentano ulteriormente per le donne che appartengono a categorie vulnerabili, come migranti, disabili o appartenenti a minoranze etniche. Queste donne si trovano ad affrontare ostacoli aggiuntivi nell’accesso ai servizi di supporto, a causa di barriere culturali, linguistiche e amministrative. L’assenza di risposte sensibili alle loro specificità non solo le discrimina, ma le isola ulteriormente, rendendole più vulnerabili a ulteriori episodi di violenza.
Casi di ordinaria violenza
Un esempio di violenza istituzionale riguarda i Servizi Sociali, normalmente i primi interlocutori delle donne che subiscono violenza, subito dopo la denuncia, i quali di rado rispettano le disposizioni della Convenzione di Istanbul del 2013, nonostante ne facciano una bandiera nelle campagne di sensibilizzazione. Tra le norme fondamentali, la Convenzione stabilisce che una donna che ha subito violenza non debba mai essere costretta a incontrare o confrontarsi, neanche in presenza di terzi, con il suo maltrattante. Eppure, in Italia, questa pratica è sistematicamente ignorata.
Con l’obiettivo dichiarato di agire a favore del nucleo familiare per mediare e risolvere i conflitti, si pongono in aperta violazione dell’art. 48:
“Articolo 48 – Divieto di metodi alternativi di risoluzione dei conflitti o di misure alternative alle pene obbligatorie
1 Le parti devono adottare le necessarie misure legislative o di altro tipo per vietare il ricorso obbligatorio a procedimenti di soluzione alternativa delle controversie, incluse la mediazione e la conciliazione, in relazione a tutte le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione”.
Se una donna chiede di essere ascoltata separatamente, proprio per tutelarsi, spesso viene accusata di mentire o di voler manipolare la situazione. Questo non solo vanifica le tutele previste, ma aggiunge un ulteriore strato di violenza: quella istituzionale, perpetrata dalle stesse strutture che dovrebbero proteggerla.
Da un lato, i Comuni e i Servizi Sociali promuovono numeri verdi e campagne contro la violenza, invitando a riconoscerne i segnali; dall’altro, una volta che la donna denuncia, la Convenzione di Istanbul viene di fatto ignorata. La vittima si ritrova sola, a fronteggiare un sistema che tradisce la sua fiducia e non le garantisce le tutele promesse.
Queste cose non si dicono mai, le donne che le subiscono hanno paura che vengano portati via i figli (questa è spesso la minaccia): la violenza si annida veramente dovunque.
Chi sono gli uomini violenti
Contrariamente a quanto si pensa non sempre gli uomini che maltrattano le donne non provengono da contesti di disagio sociale, o con bassa istruzione o con vissuti drammatici (se non tragici).
Un articolo dell'Huffington Post Italia del 2017 racconta le storie di uomini “normali, colti e benestanti” che hanno esercitato violenza sulle proprie partner. Questi uomini, pur avendo un elevato livello di istruzione e una posizione sociale rispettabile, hanno riconosciuto comportamenti violenti nelle loro relazioni affettive e hanno scelto di intraprendere percorsi terapeutici presso Centri di Ascolto per Uomini Maltrattanti (CAM).
Il Centro di Ascolto Uomini Maltrattanti (CAM) di Firenze, primo in Italia dal 2009, offre programmi di cambiamento specifici rivolti a uomini che agiscono con violenza nelle relazioni affettive. Il CAM sottolinea che la violenza domestica è un problema che attraversa tutte le classi sociali e che gli uomini che si rivolgono al centro provengono da diverse realtà socio-economiche, inclusi professionisti e persone istruite.
Un'intervista del febbraio 2024 ad Alessandra Pauncz, fondatrice e presidente del CAM di Firenze, conferma che gli uomini che si rivolgono al centro appartengono a varie fasce d'età e contesti sociali. Questo indica che la violenza di genere non è limitata a specifici gruppi socio-economici, ma è un problema diffuso che prescinde dall’estrazione sociale. Anzi, capita che proprio perché il livello culturale è elevato non sia facilmente riconoscibile.
Catcalling virtuale
Tra le tante disavventure della mia esistenza, mi è capitato di incontrare in un corso di formazione un uomo che ha cominciato a mandarmi messaggi. Tutti noi colleghi ci sentivamo costantemente, quindi io non ho pensato immediatamente a una situazione di pericolo. Da tutti è stimato come una persona di ampie vedute, accogliente e favorevole al potere “rosa”. Ogni messaggio su whatsapp inizia con “Ciao bella”.
Qualcosa mi ha messo sull’avviso, avevo detto chiaramente che non ero interessata. Ma “ciao bella” voleva la mia attenzione. A un certo punto, ho capito. Ho capito che il “ciao bella” può essere come “puttana, troia”, anzi che il “puttana, troia” arriva dopo tanti “ciao bella”. E che può essere violenza anche una pretesa di attenzione a chi non è disposto a dartela, perché appunto è una pretesa. Questo è uno dei segnali di pericolo da riconoscere.
La violenza contro le donne non è confinata a determinate classi sociali o livelli di istruzione. Uomini colti e benestanti possono essere autori di comportamenti violenti nelle relazioni affettive: bisogna fare attenzione alle parole.
Parole e azioni
Prevenire la violenza, in ogni contesto, è una responsabilità che ci compete come educatori. Gli insegnanti hanno un ruolo fondamentale nell’aiutare i giovani a sviluppare consapevolezza su come le parole e le azioni influenzano il rispetto reciproco e la convivenza.
Alle parole, i fatti
Le parole sono potenti, ma il loro vero valore si misura nei fatti che seguono. Dobbiamo aiutare i ragazzi a comprendere che dichiarare un ideale – come condannare la violenza o il bullismo – perde significato se le azioni quotidiane non sono coerenti. Ad esempio, se un ragazzo si dichiara contrario alla violenza ma si comporta in modo irrispettoso con i compagni, sta contraddicendo i propri valori. Vale la pena riconoscere la dissonanza e ascoltare i fatti.
Ascoltare anche le sensazioni
Non tutte le parole hanno lo stesso peso: il contesto in cui vengono pronunciate è essenziale. Un complimento, ad esempio, può sembrare piacevole a prima vista, ma se lascia una sensazione di disagio o perplessità, va ascoltato quel campanello d’allarme. Insegnare a leggere il contesto e a fidarsi delle proprie sensazioni è un’importante forma di autodifesa. Difendere i propri limiti non è maleducazione, ma un atto di rispetto verso sé stessi. Potremmo iniziare da noi stessi.Modelli di coerenza
Come insegnante, il mio esempio è fondamentale: mostrare coerenza tra ciò che insegno e come mi comporto con studenti e colleghi è un potente strumento educativo. Questo significa che prima di tutto per me le parole che dico devono avere un peso e un valore:
se intuisco che i miei studenti vivono una situazione di violenza in casa, posso limitarmi a celebrare il 25 novembre? Basta così?
Buon caffè ☕
Simona
Viene definita “vittimizzazione secondaria” ed è uno degli aspetti più problematici delle violenze contro le donne. La questione è esaminata anche dal D.i.Re (il centro di coordinamento dei centri antiviolenza in Italia): “Nella magistratura, nelle forze dell’ordine, nei consulenti tecnici d’ufficio persistono pregiudizi e stereotipi sessisti e misogini che fanno parte ancora della nostra cultura nonostante le conquiste delle donne degli ultimi 70 anni. Tra le criticità pesa la formazione inadeguata che non permette di riconoscere la violenza e di distinguerla dal conflitto. L’ estate scorsa, il Gruppo avvocate D.i.Re ha presentato l’indagine Il (non) riconoscimento della violenza nei tribunali civili e dei minoriche aveva l’obiettivo di verificare l’applicazione dell’ Articolo 31 della Convenzione di Istanbul sulla custodia dei figli, diritti di visita e sicurezza che impone di prendere in considerazione la violenza e la sicurezza della madre quando nei tribunali si decide sull’affidamento dei figli e vieta la mediazione di coppia. I risultati dell’indagine hanno rilevato come nei tribunali civili e dei minori la violenza, così come la Convenzione di Istanbul, non sono mai nominate ma si parla di conflitto o di aspro conflitto. Un’altra indagine condotta nel 2020 da Marianna Santonocito e coordinata da Patrizia Romito (Università di Trieste) ha evidenziato la scarsa competenza in materia di maltrattamento domestico e violenza assistita dei Consulenti tecnici d’ufficio che sono incaricati di svolgere valutazioni sulle capacità genitoriali nelle cause per l’affido dei figli e la persistenza di pregiudizi misogini sulle donne che “provocano la violenza”. Le donne insomma non vengono credute”.