🖇️ Ma è questa l’inclusione?!?
Questa è la quarantaduesima newsletter del 2024. Utilizziamo il pensiero critico per chiederci a che servono le cose. Perché, a volte, impugnare una matita può essere controintuitivo.
Quest’anno ho una classe prima in un istituto tecnico. È una classe articolata (cioè due gruppi con indirizzi differenti uniti perché da soli sarebbero stati troppo pochi) di 28 studenti. Sono carini. Davvero.
La prima cosa che faccio quando inizio l’anno è una rilevazione dei bisogni. Avevo in mente le mie quinte di quest’anno e alcune difficoltà riscontrate dai miei “bambini”, sopratutto nella decodifica e comprensione del testo scritto e nel corretto uso di concordanze e nessi sintattici della frase nell’esprimere un pensiero proprio.
Parliamo di numeri
In una quinta l’incidenza di ragazzi con PdP (o PEI1) è del 45,45% e, grazie al mio sviluppato senso di preveggenza (che è solo una attenta osservazione di ciò che accade a me e intorno a me), mi aspettavo qualcosa del genere anche nella classe prima. Infatti allo stato attuale, intanto che arrivano le richieste di casi particolari, problemi di ansia, nuove certificazioni e calendari degli sportivi, dovremmo attestarci sul 46,43% della classe con Piani personalizzati o individualizzati. Considerando che sono presenti anche un numero cospicuo di studenti immigrati di seconda generazione (ma qualcuno anche di prima), la percentuale potrebbe salire al 64,29%.
Nel giro di qualche anno, la percentuale è salita di circa il 20%. Ogni tanto bisognerebbe effettuare queste rilevazioni sulla classe (da docente, dico).
Inoltre, l’incertezza diffusa (tra DSA e non) nella decodifica e comprensione del testo scritto e nel corretto uso di concordanze e nessi sintattici della frase nell’esprimere un pensiero proprio, è diventato capillare. Tutti fanno gli stessi errori. I colleghi di materie scientifiche mi confermano la stessa cosa: non capiscono. Non è successo che hanno dimenticato quello che hanno appreso: non l’hanno mai appreso veramente.
I dati del Miur sulle certificazioni di dislessia (e in generale disturbi degli apprendimenti in base a quanto previsto dalla Legge 170/2010), riportano positivamente un aumento delle diagnosi, come riconoscimento e sensibilità nei confronti del disturbo neurobiologico2.
La normativa Bes, quella famosa direttiva ministeriale del 27 dicembre 20123, in aggiunta prevede che per tutti gli studenti che manifestano difficoltà di apprendimento dovute a cause familiari, socio-ambientali o culturali, possono usufruire di un piano didattico personalizzato (cioè didattica inclusiva, misure dispensative e strumenti compensativi).
Una moda diagnostica?
Ci troviamo in un'epoca scolastica un po' particolare. Le classi sembrano essere piene di studenti con disturbi di apprendimento o altri disturbi (o disagi che dir si voglia), a tal punto che verrebbe da chiedersi: ma sono tutti DSA? O Bes? O ansiosi?
Che cosa sta succedendo? Si è forse perso un po' il confine tra la vera difficoltà e quella che è diventata quasi una “moda” diagnostica?
La questione si fa ancora più complessa se consideriamo la situazione degli studenti stranieri, che vivono come prima difficoltà di apprendimento proprio il mezzo comunicativo per eccellenza: la lingua. Una delle ultime leggi del 20244 stabilisce che, a decorrere dall’a.s. 2025/2026, può essere disposta l'assegnazione di un docente di Lingua italiana per discenti di lingua straniera (classe di concorso A-23) dedicato all'insegnamento dell'italiano per stranieri per le classi aventi un numero di studenti stranieri pari o superiore al 20 per cento degli studenti della classe.
Ma c’è di più. Gli studenti che adesso sono in prima superiore (quelli della mia classe) hanno frequentato la scuola primaria durante gli anni del Covid. Per la precisione, la quarta e la quinta classe della primaria. Sono cresciuti a suon di lezioni a distanza, con la webcam accesa (se andava bene) e un’attenzione che faceva fatica a stare dietro allo schermo. Ma teoricamente avrebbero dovuto apprendere gli automatismi della lingua prima di questo. Mia nonna, che aveva fatto la prima e la seconda elementare ai tempi del fascismo (e infatti non ha potuto continuare, perché il babbo, col cavolo! che le avrebbe pagato la tessera del partito!) sapeva riconoscere le concordanze tra articolo e nome o nome e aggettivo.
La standardizzazione delle diagnosi
Va bene: anche io sono affascinata dalla vision delle Indicazioni nazionali 2012, quando il legislatore fa riferimento a una scuola di tutti e di ciascuno, fatta a misura di ogni studente, perché si pone l’obiettivo della crescita come persona (la persona dello studente al centro).
Guardiamo però, a cosa sono i PdP (Piani didattici personalizzati) nella loro concretezza: tanta carta, fiumi di parole, ma in fondo un enorme peso burocratico che standardizza piani che dovrebbero essere “su misura” e misure dispensative e strumenti compensativi sempre uguali, sempre gli stessi.
Se leggo le diagnosi, ormai da anni trovo la stessa dicitura per tutto: hai la disgrafia? Interrogazioni programmate. Sei discalculico? Usa il pc per il tema di italiano. Hai un disturbo qualsiasi dell’apprendimento? Interrogazioni programmate. Alla fine della relazione c’è scritto che, nella didattica e nella valutazione, alla scuola si consiglia… tutto. A pioggia. Indifferenziato. ( E sottolineo che questo arriva da chi redige la diagnosi, cioè l’equipe di psicologi, pedagogisti, logopedisti).
Serve? Qualcuno che faccia questa domanda: serve? Che cosa serve di più? Che cosa di meno? Si può lavorare su altri punti di forza? Chi fa queste domande è tacciato di ignoranza e fatto passare essere reazionario. Chi, come me, si fa mille scrupoli per lavorare sull’apprendimento e trovare soluzioni sostenibili (ma che portino risultati reali) ha vita dura a convincere famiglie e studenti che per poter affrontare la difficoltà è necessario capire come funziona quella persona, come impara e su che cosa fare leva. E che per tutti è diverso. Più facile il pc, tempo in più, schemi fotocopiati. E il gioco è fatto.
Quei poveri sfigati che rimangono senza certificazione che fanno? Soccombono? Per loro la gogna della vita vissuta senza aiuti, se arriveranno superstiti e non dispersi, avranno vinto la battaglia?
Quindi è questa l'inclusione?
È questo il modello che stiamo proponendo?
Certo, l’inclusione dovrebbe essere un principio sacrosanto, ma dovremmo anche ricordare che includere qualcosa o qualcuno significa escludere qualcosa o qualcun altro.
Se si trasforma in un meccanismo che deresponsabilizza, sinonimo di “andiamo avanti comunque”, il rischio è di creare un esercito di studenti che, dislessia o meno, non riescono a leggere bene; che, pur senza difficoltà cognitive, non riescono a comprendere un testo. E sta già avvenendo. E non perché siano incapaci, ma perché né gli uni né gli altri sono stati messi nella condizione di imparare davvero, di crescere come avrebbero dovuto.
E no, non è che ci sono quelli bravi che studiano e gli altri scansafatiche che non studiano. Anche protetti da tutti i baluardi dei PdP, gli studenti con DSA non sono più preparati degli studenti senza certificazione. Ma neanche meno preparati. Non capiscono un tubo né gli uni né gli altri. Una vera inclusione, insomma.
L’età dell’intelligenza…
Sam Altman5 nell’immaginare il mondo futuro grazie all’AI ci regala questa visione di come avverrà l’istruzione e l’apprendimento, con un altissimo grado di personalizzazione e con il più perfezionato strumento compensativo che si possa immaginare:
Our children will have virtual tutors who can provide personalized instruction in any subject, in any language, and at whatever pace they need. (…) AI models will soon serve as autonomous personal assistants who carry out specific tasks on our behalf like coordinating medical care on your behalf. At some point further down the road, AI systems are going to get so good that they help us make better next-generation systems and make scientific progress across the board.
Technology brought us from the Stone Age to the Agricultural Age and then to the Industrial Age. From here, the path to the Intelligence Age is paved with compute, energy, and human will.
Sam Altman, The intelligence age
Non ho la soluzione ai problemi del mondo, della scuola, e non so neanche se posso fare qualcosa per la mia classe. Ma io credo che ci sia una mancanza che non si vuole vedere a carico dell’insegnamento. Per quanto mi riguarda, chi se ne frega se nessuno l’ha fatto prima: ora sono incappati nella calamità di incontrarmi perciò ci rimbocchiamo le maniche e iniziamo dall’incomincio6.
Una considerazione controintuitiva
Imparare l'italiano non è solo una questione di grammatica o vocabolario. È uno strumento di integrazione, una porta verso nuove relazioni sociali, un mezzo per esprimere emozioni e bisogni.
Il linguaggio è la possibilità che abbiamo per pensare.
Ancora una volta, stiamo parlando di un processo che coinvolge tanto l'aspetto cognitivo quanto quello emotivo.
Il ragionamento che soggiace all’immagine, pur trovando consenso in molti, nasconde una trappola pericolosa. Separare l’apprendimento dall’emotività, come se fossero due processi distinti, è fuorviante e rischioso.
Certo, l’autrice vuole sottolineare l’importanza dell’apprendimento emotivo rispetto alla mera acquisizione nozionistica. Tuttavia la contrapposizione implica tracciare una linea invalicabile tra le due azioni: una cosa è impugnare la matita o scrivere7 il proprio nome e cognome, un’altra, separata, è giocare o creare legami.
Apprendere non è un processo puramente meccanico o razionale: coinvolge ogni parte di noi, dalle abilità cognitive a quelle emotive e sociali. Quando un bambino impara a impugnare una matita, a scrivere il proprio nome o a contare fino a cento, non sta solo acquisendo competenze tecniche. Sta, allo stesso tempo, lavorando sulla propria autostima, sulla perseveranza e sull’abilità di collaborare con gli altri.
Separare queste dimensioni, come se da una parte ci fosse la competenza sociale e dall’altra l’acquisizione di conoscenze, genera una divisione innaturale. È dire che l’imparare a leggere o a scrivere è meno importante del saper gestire le emozioni, quando in realtà i due aspetti si intrecciano costantemente: ad esempio, se uno non sa parlare o scrivere come fa a esprimerete le proprie emozioni agli altri?
Pensiamo a un bambino che impara a impugnare bene la matita: il suo orgoglio per quel traguardo conquistato con fatica e dedizione è anche un’esperienza emotiva. Questa esperienza lo rende più sicuro di sé, e quella sicurezza lo porta a condividere con gli altri, magari ad aiutare un compagno in difficoltà. Il risultato? Una crescita a tutto tondo, che coinvolge sia le competenze cognitive che quelle sociali.
Anche prendere in mano una matita può significare creare legami.
Forse la mancata acquisizione dei meccanismi elementari della lingua e del ragionamento potrebbe derivare dal fatto che è stato interiorizzato il concetto che per imparare non puoi avere emozioni?
In effetti molti studenti manifestano stati ansiosi nei momenti di prova e verifica. Perché se soffochi l’emozione in quello che fai, prima o poi da qualche parte sbuca fuori. E non è detto che sia un bene.
Iniziare a pensare alla scuola come un’esperienza completa che richieda una visione olistica da parte dei docenti, potrebbe essere una strada?
Non è forse questo il punto? Affrontare la vita non significa separare il sapere dal saper essere, ma viverli insieme. Ogni piccolo traguardo, anche il più tecnico o banale, diventa un’opportunità per crescere come persone. Ignorare questa interconnessione significa trascurare la realtà della crescita umana. Un bambino che apprende sta anche maturando emotivamente, e viceversa. Se smettiamo di vedere l’apprendimento come qualcosa che coinvolge ogni aspetto della vita, rischiamo di privare i nostri bambini delle risorse più importanti per il loro futuro.
Dobbiamo chiederci: è davvero inclusivo un sistema che preferisce spianare la strada, togliere le asperità, senza però dare ai ragazzi gli strumenti giusti per affrontare le sfide della vita?
Forse dovremmo rivedere le nostre priorità.
Perché, alla fine, tutti meritiamo di arrivare preparati. Altrimenti, la vera esclusione, in futuro, sarà proprio quella di chi non avrà mai imparato a farcela.
Buon caffè
Simona ☕️
PS: Questa volta non ho potuto dedicarmi tanto alle immagini perché devo studiare. Spero di riuscire a mantenere costante questo appuntamento…
In Italia, l’inclusione ha una storia lunga, a partire dalla legge 517 del 1977 che aboliva le classi differenziali, passando per la fondamentale legge 104/1992. Di recente il D.lgs. 62/2024 introduce delle novità importanti nella terminologia utilizzata nel mondo della disabilità, sostituendo una vecchia terminologia ad una nuova: la parola: «handicap» è sostituita da: «condizione di disabilità» e le parole: «con connotazione di gravità» e «in situazione di gravità» da «con necessità di sostegno elevato o molto elevato». Anche l’art. 3 della Legge 104 è stato innovato introducendo la dicitura: “Persona con disabilità avente diritto ai sostegni”. Inoltre il D.lgs. 71/2024 convertito in legge 106/2024 ribadisce (come aveva fatto il D.lgs. 66/2017) la continuità sul posto di sostegno. Si tratta di una modifica introdotta all’art. 14 del D.lgs. 66/2017, attraverso la quale si specifica meglio che, per agevolare la continuità educativa e didattica, nel caso di richiesta da parte della famiglia, può essere proposta la conferma degli incarichi a tempo determinato al docente in possesso del titolo di specializzazione per l'insegnamento agli alunni con disabilità, con precedenza assoluta rispetto al restante personale a tempo determinato, sul medesimo posto di sostegno assegnatogli nel precedente anno scolastico, fermi restando la disponibilità del posto, il preventivo svolgimento delle operazioni relative al personale a tempo indeterminato e l'accertamento del diritto alla nomina nel contingente dei posti disponibili da parte del docente interessato.
Ma segnalano anche un divario Nord-Sud: nelle regioni meridionali la percentuale è ancora ridotta rispetto a quanto emerge nell’area settentrionale.
La Direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012 recante Strumenti di intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali e organizzazione territoriale per l'inclusione scolastica è stata poi ampliata dalla C.M. 6 marzo 2013 e dalle note del 27 giugno 2013 e del 22 novembre 2013. La circolare del 17 maggio 2018 riguardo Autonomia scolastica quale fondamento per il successo formativo per ciascuno, che sembrava voler eliminare la predisposizione di PdP per Bisogni Educativi Speciali (tra cui rientrano anche gli studenti plusdotati), voleva invece sollecitare e chiarire il ruolo del docente che, in forza delle sue competenze didattiche, può riconoscere l’utilità di uno strumento di personalizzazione riconoscendo un disagio anche temporaneo. Infatti questa particolare personalizzazione non si basa su una diagnosi medica.
Si tratta del’art. 11 del Decreto legislativo 71/2024, convertito in legge 106/2024 che recita: “Art. 11: Misure per l'integrazione scolastica degli alunni stranieri. c.1 Con il decreto del Ministro dell'istruzione e del merito […] nei limiti delle risorse di organico disponibili a livello nazionale, può essere disposta l'assegnazione di un docente dedicato all'insegnamento dell'italiano per stranieri per le classi aventi un numero di studenti stranieri, che si iscrivono per la prima volta al sistema nazionale di istruzione ovvero che non sono in possesso di competenze linguistiche di base nella lingua italiana almeno pari al livello A2 del Quadro comune europeo di riferimento per la conoscenza delle lingue (QCER), pari o superiore al 20 per cento degli studenti della classe. Nella programmazione dei posti da assegnare alle procedure di concorso ordinario per docenti della scuola secondaria, il Ministero dell'istruzione e del merito tiene conto del fabbisogno per la classe di concorso Lingua italiana per discenti di lingua straniera» (classe di concorso A-23) derivante dall'applicazione del presente comma. L'assegnazione dei docenti di cui al primo periodo è disposta a decorrere dall'anno scolastico 2025/2026.” Al successivo comma 2 si precisa che tali studenti devono avere un Piano personalizzato.
Non si può non sapere chi è Sam Altman: è il papà di ChatGPT, ha fondato OpenAI, che è l’azienda che possiede il celebre chatbot, e che è stato silurato dal suo Consiglio di amministrazione e richiamato a tempo record come CEO di OpenAI, appunto. Il testo che segue è una sorta di manifesto pubblicato il 23 settembre scorso:
https://ia.samaltman.com/
Lo so che è scorretto, ma è per citare mia mamma che sennò non lo faccio mai. Si inizia quando si dice “Incomincio a…”. Oppure: “Incomincio da qui…”. è il modo che il linguaggio ci offre per partire o ri-partire. In classe sto ancora insistendo su quali siano le frasi, quali le non frasi e i criteri logici per riconoscerle. Incomincio da qui.
Non sono Nostradamus, ma scrivere è stata la competenza che ci ha permesso di distinguerci dagli animali: sarà la stessa competenza che ci consentirà di distinguerci dall’intelligenza artificiale.
Grazie, come sempre.
Ho riletto alcuni passi con i miei studenti (liceo scientifico).
Ho chiesto loro: 'Cosa significa questa frase? Spiegala in maniera semplice'.
Non hanno capito subito ma quando hanno capito i loro occhi ridevano.
Hanno colto tutto. Il detto e il non detto.
Hanno ragionato sul 'Sapere e il Sapere Essere'. Hanno detto: 'Mai sentita quest'espressione prima ...'
Li ha colpiti la capacità di 'creare legami'.
'E che è?'
Poi mi hanno inondato di esempi a scuola, alle feste di compleanno, in spiaggia, alle assemblee di istituto, quando arrivano i cugini da fuori e non si conoscono bene, alle gite con le altre classi, al PCTO con studenti di altre classi, in prima quando non conoscono ancora nessuno dei compagni, ... ... una ragazza ha citato persino il legame con suo padre 'separato' dalla madre e che non parla con la ex-moglie da anni (avrei urlato dalla rabbia!).
Che vita! Quanto dolore nascosto. Vado a studiare, va ...